A seguito dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento della speranza di vita, il numero dei working carers, ovvero di coloro che, occupati a tempo pieno o parziale, si occupano di assistere un membro della propria famiglia, coniuge o amico, bisognoso di cure, in ragione dell’età, di un difetto fisico o mentale, o di una disabilità, è destinato ad aumentare negli anni a venire. Per questo motivo, il concetto della conciliazione vita-lavoro è diventato un argomento importante nelle politiche di molti paesi. Per quanto riguarda l’Italia, le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia sono ancora indirizzate principalmente alle donne; il Jobs Act ha introdotto nuove disposizioni per la maternità, paternità ed orari di lavoro flessibili per i genitori che lavorano, ma è solo un punto di partenza; molto può e deve essere fatto per aiutare le persone a conciliare il lavoro e la famiglia. È fondamentale comprendere che il supporto ai working carers può recare benefici considerevoli a loro stessi, ai datori di lavoro (perché coloro che hanno adottato politiche in tal senso ottengono un miglior rendimento da parte dei lavoratori, agevolazioni ed un aumento della produttività) e all’economia nel suo complesso.
Given the ageing population, and of course the increases in life expectancy, the number of working carers, i.e. «someone in full or part-time employment, who also provides unpaid support, or looks after a family member, partner or friend who needs help because of their age, physical or mental illness, or disability», is likely to grow further in the years ahead. Therefore, the concept of work-life balance has become an important topic for policy in some countries. As regard to Italy, work and family reconciliation policies are still predominantly addressed to women; the Jobs Act introduced new provisions for maternity and parenthood and flexible work schedules for working parents, but they are just a starting point; more can and should be done to support people who want to combine caring for a family member with working. It’s vital to understand that supporting carers to remain in work can bring considerable benefits to carers themselves, employers (because those who have policies in place to support carers see improved service delivery, cost savings and increased productivity) and the wider economy.
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1. Premessa. Le sfide senza precedenti - 2. Le misure di conciliazione per i working carers in prospettiva comunitaria - 3.Il quadro italiano e l’opera incompiuta del Jobs Act - 4.Gli interventi da consolidare nella disciplina del lavoro - 5. Le lacune del settore previdenziale - 6. La necessità di liberare il lavoro di cura - 7. Il ruolo e l’interesse delle imprese - 8. Le politiche di conciliazione come politiche di attivazione - 9. Considerazioni conclusive - NOTE
Le sfide che i Paesi europei si trovano ad affrontare, nel nostro tempo, sono diverse: cambiamenti demografici senza precedenti (segnatamente la crescita dell’aspettativa di vita), il calo dei tassi di natalità, il mutamento delle strutture familiari con le nuove forme di costruzione delle relazioni e di (co)abitazione, la genitorialità in tarda età e le migrazioni, con inevitabili conseguenze sull’equilibrio economico-finanziario degli stessi. In particolare, c’è un “fantasma” che si aggira per l’Europa: l’invecchiamento della popolazione, destinato a proseguire nei prossimi decenni. Di fronte a ciò, molti Stati membri non dispongono di sufficienti strutture per l’assistenza a lungo termine per affrontare l’aumento del fabbisogno di assistenza e la stagnazione/riduzione dell’indicatore del buono stato di salute; come rileva il Parlamento europeo, infatti, l’80% delle esigenze di assistenza nell’Unione europea sono soddisfatte da operatori informali, mentre circa 3,3 milioni di europei di età compresa fra 15 e 34 anni hanno dovuto lasciare il lavoro a tempo pieno poiché non dispongono delle strutture di assistenza per i figli o per i familiari anziani a carico [1]. Non sorprende dunque che il popolo dei c.d. “working carers”, ossia i lavoratori, specialmente maturi, che svolgono un ruolo di cura verso figli, genitori anziani, persone malate, disabili, ecc., sia destinato ad aumentare. Trattasi di un gruppo che rappresenterebbe circa il 16% della popolazione europea in età lavorativa, ma la domanda di servizi è destinata a crescere in futuro, proprio a causa dell’invecchiamento demografico [2]. È bene però precisare che il bisogno da soddisfare è un bisogno specifico, in precedenza affidato a interventi tradizionali, quali la sanità e i sistemi pensionistici, che non è costituito tanto dalla vecchiaia, quanto dalla “dipendenza”, dalla mancanza di autonomia nelle normali attività quotidiane [3]; quindi non è solo un problema di salute da risolversi con cure mediche, ma di assistenza a tutti i livelli, che va inserito nella questione dell’uguaglianza fra i sessi. D’altro canto, è questo un tipo di bisogno affrontato per lo più nel contesto familiare, principalmente dalle [continua ..]
Il c.d. work life balance è diventato un problema di policy, a partire dagli anni novanta, dapprima a livello europeo, successivamente a livello di singoli paesi comunitari, nella misura in cui è stato recepito come problema nei piani nazionali di occupazione e di inclusione sociale [5]. Al riguardo, non mancano i riconoscimenti sia a livello comunitario che internazionale [6], la conciliazione tempo di lavoro-tempo di vita si configura infatti come principio e diritto sociale di portata universale, al punto che dovrebbe essere inserita negli ordinamenti degli Stati membri e nelle strategie dirette ad incrementare l’occupazione e realizzare le pari opportunità tra lavoratori e lavoratrici [7], È però questo un ambito di policy profondamente segnato dalle diversità nei modelli comportamentali e normativi di famiglia e dalla divisione sociale del lavoro di cura, in termini di obbligazioni e responsabilità familiari, divisioni di genere del lavoro e nei modelli di solidarietà, soprattutto intergenerazionali. In altre parole, esiste uno scarto tra le possibili forme di cura e le soluzioni a disposizione delle famiglie, che variano moltissimo non solo in base alle risorse di cui dispongono gli individui e le loro famiglie, ma anche a seconda dei diversi regimi di welfare. In effetti, un’analisi comparata delle politiche di conciliazione promosse dai Paesi europei evidenzia la presenza di diversi modelli di intervento. Nei moderni sistemi di welfare la produzione dei servizi sociali e di cura dipende cioè dal concorso di più sfere di azione: quelle tradizionali della famiglia e del mercato, insieme con quelle dello Stato e del terzo settore. Il mix che si determina nell’integrazione tra questi ambiti si caratterizza per il diverso ruolo che ciascuno svolge compatibilmente con le funzioni ricoperte dagli altri. Nei paesi scandinavi, il ruolo dello Stato è molto rilevante nella produzione dei servizi di cura mentre le famiglie ed il terzo settore hanno un ruolo residuale nel processo di produzione di welfare. In particolare, nei Paesi nordici, i “working carers” solitamente hanno il diritto di tornare al loro posto di lavoro dopo un congedo, richiesto per fornire assistenza a qualcuno e, per tutta la durata dello stesso, sono assicurati dall’ente locale di [continua ..]
Il work life balance è un principio radicato già da tempo nel nostro ordinamento giuridico, la cui rilevanza sociale, economica ed organizzativa è testimoniata da numerose analisi economiche, statistiche e sociologiche, che lo considerano componente del benessere della società [17]. Nel nostro Paese, l’avvio delle misure di work life balance è avvenuto, come noto, a partire dalla legge n. 53/2000 [18], successivamente trasfusa nel Testo Unico n. 151/2001 [19], che è stato più volte rivisitato. Quel che preme qui evidenziare è il fatto che la questione giuridica della tutela della genitorialità è andata oltre la sfera delle tutele interne al rapporto di lavoro per abbracciare anche quelle dell’assistenza e della sicurezza sociale [20]. In particolare, le discipline sono state estese «oltre la genitorialità biologica, per arrivare a quella giuridica», ma anche «oltre la tutela della madre lavoratrice», chiamando in causa il padre lavoratore, «oltre il lavoro subordinato tipico», infine, «oltre il lavoro stesso mediante il sostegno alla natalità, oltre la considerazione di chi svolge la cura» [21]. Senonché il cammino verso il work life balance non è parso lineare e anche dopo i più recenti interventi normativi, rappresentati dalla legge Fornero e dal Jobs Act, la disciplina in oggetto resta alquanto disorganica ed incompleta, nonostante gli strumenti variegati utilizzati al riguardo (congedi e permessi a vario titolo, per esigenze personali e familiari). Al di là di alcune modifiche, introdotte dalle leggi nn. 221 e 228/2012 [22], giova in questa sede ricordare altresì la legge n. 92/2012 (legge Fornero), che ha introdotto, in via sperimentale, il congedo obbligatorio e quello facoltativo del padre durante il periodo di astensione obbligatoria della madre ed ha previsto, inoltre, contributi economici per favorire il rientro della madre nel mondo del lavoro, così come un contributo per l’acquisto di servizi per l’infanzia e anche per servizi di baby sitting [23]. Più recentemente, il d.lgs. 15 giugno 2015, n. 80, recante misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, attuativo dell’art. 1, commi 8-9 della legge delega n. [continua ..]
Il work life balance merita sicuramente strumenti di protezione e sostegno più ampi ed efficaci di quelli esistenti. Ed è indubbio che una seria politica di conciliazione e di genere – che voglia contestualmente risultare funzionale alla razionalizzazione del sistema di welfare – passa (anche) attraverso una risistemazione complessiva e un potenziamento della strumentazione giuridica di sostegno della maternità e, dunque, della natalità. Ed è da ritenere che ciò implichi, in via di massima: non solo misure consistenti in premi monetari corrisposti alla nascita perché sono insufficienti ad imprimere un’effettiva inversione di rotta a delle problematiche che presentano anche criticità strutturali, ma anche investimenti nel settore dei servizi sociali, comprese le infrastrutture, che generano effetti rilevanti a livello occupazionale, comportando altresì entrate aggiuntive significative per il settore pubblico, in termini di imposte sul lavoro e contributi previdenziali, cosi come politiche coordinate ed efficaci, nei vari ambiti di competenza territoriale, su asili, mense scolastiche realmente “inclusive”, assistenza all’infanzia, in particolare con riferimento ai bambini provenienti da contesti svantaggiati e ai bambini con disabilità e servizi di cura per gli anziani e le persone a carico, che siano di qualità, disponibili, universalmente accessibili e abbiano un costo ragionevole; infine, nel settore delle discipline del lavoro, più spazio e più risorse, in particolare, per i tempi di cura genitoriale e per la praticabilità di forme di telelavoro (o di smart working) delle lavoratrici madri. Ma quello che serve sopra di tutto è una vera e propria condivisione da parte di madri e padri dei ruoli di accudimento e domestici. In effetti, le protezioni contro le discriminazioni, conseguenti all’esercizio del diritto al congedo parentale e al riconoscimento di una indennità adeguata, oltre a incentivare la redistribuzione del lavoro di cura, potrebbero altresì costituire il primo passo per affermare la genitorialità quale normale condizione di vita dei lavoratori e dunque accantonare definitivamente l’immagine della madre che lavora, con gli stereotipi e le discriminazioni che ad essa conseguono, nonché riuscire a superare [continua ..]
Se dal piano delle discipline del lavoro si passa a quello degli interventi che hanno interessato il settore previdenziale, appare evidente come, da questo punto di vista, il nostro sistema si riveli incapace di risolvere il problema della discontinuità delle carriere lavorative, probabilmente, perché questo non è un fenomeno degli ultimi tempi, ma affonda le sue radici in epoche ben più remote di quella attuale. Si tratta, infatti, di un elemento connaturato al sistema occupazionale italiano, da sempre terreno fertile per il modello del “male breadwinner”, in cui il peso economico ed il sostentamento della famiglia gravano sul solo padre. A confermarlo il fatto che l’intermittenza nasce in principio come caratteristica connaturata alla carriera delle donne: quelle che sono riuscite a discostarsi dal ruolo esclusivo di mogli e casalinghe si sono comunque viste costrette ad interrompere per periodi di tempo più o meno lunghi la propria vita lavorativa per dedicarsi a quella familiare, in un Paese che offre poche opportunità di conciliazione delle due sfere. Invero, l’esigenza di tenere conto dei periodi dedicati alla maternità e al lavoro di cura prestato dalle lavoratrici appare oggi ancora più avvertita sul piano previdenziale, conseguentemente all’unificazione dell’età per la pensione di vecchiaia tra uomini e donne, considerato che queste ultime, nel novero del lavoro dipendente privato, hanno pagato il prezzo più alto delle riforme [44]. Non si possono trascurare, al riguardo, i recenti interventi del nostro legislatore, a favore delle donne e dei caregivers intesi ad agevolare la transizione verso il pensionamento, attraverso l’Anticipo finanziario a garanzia pensionistica (c.d. APE) sociale [45], prorogato fino al 31 dicembre 2019. Possono infatti accedere all’APE sociale i caregivers (oltre che gli appartenenti ad una categoria tra disoccupati, invalidi, e lavoratori gravosi, in possesso di un’età anagrafica minima di 63 anni e di ulteriori requisiti richiesti per ciascuna categoria), per tale intendendo i parenti o affini di secondo grado conviventi, da almeno 6 mesi, con un disabile in condizioni di gravità nel caso in cui i genitori o il coniuge dello stesso abbiano almeno 70 anni di età già [continua ..]
In particolare, appare necessario “liberare” il lavoro di cura, che è essenziale nel nuovo contesto economico e sociale, dato che si prolunga molto nel tempo e caratterizza molte fasi della vita, soprattutto quella delle donne. In buona sostanza, è importante riconoscere il valore sociale ed economico dell’attività di cura non professionale svolta dal caregiver familiare, individuato come la persona che si prende cura, in casa e in maniera non professionale, di una persona che necessita di assistenza, secondo quanto previsto dall’art. 3, comma 3, legge n. 104/1992. Quest’ultima è infatti, come noto, uno degli strumenti di tutela e supporto per le famiglie “caregiver”, ma necessita di un intervento di revisione, che porti ad innovare il quadro delle misure. In questo contesto, giova ricordare, da ultimo, l’istituzione del Fondo [46] per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. La dotazione dello strumento [47] è destinata alla copertura finanziaria di interventi legislativi diretti a riconoscere il valore sociale ed economico dell’attività di cura non professionale, svolta dal caregiver familiare, ovvero il valore sociale dell’attività del prestatore volontario di cura, individuato quale interlocutore degli operatori del sistema dei servizi sociali e socio-sanitari, affidando alle Regioni e alle Province autonome di Trento il compito di assicurare, con propri provvedimenti e nei limiti delle risorse disponibili, supporto psicologico, consulenze e contributi finanziari ai caregivers. Il Fondo rappresenta quindi un primo passo in direzione dell’attivazione di agevolazioni specificatamente rivolte a chi assiste i propri familiari anziani, disabili o comunque non autosufficienti. Ma non basta. Appare infatti necessaria l’approvazione del nuovo Testo Unico in materia, che è all’esame del Senato, per la portata delle misure innovative in esso contemplate [48], tenuto conto peraltro che il caregiver familiare è già riconosciuto in ambito europeo, configurandosi come componente essenziale dei sistemi di welfare nazionali [49]. La rilevanza del caring emerge anche da un altro approccio, [continua ..]
Le considerazioni che precedono inducono a ritenere che la conciliazione tra vita professionale, vita privata e vita familiare si configura come un concetto ampio, che abbraccia tutte le politiche globali di natura legislativa e non legislativa, volte a promuovere un equilibrio adeguato e proporzionato tra i diversi aspetti della vita delle persone. Ciò equivale a significare che è una questione non risolvibile soltanto attraverso interventi normativi, ma ha bisogno di una sperimentazione continua, attraverso studi e monitoraggi, e dell’adozione di tutta una serie di azioni positive e best practices, che siano fatte proprie dalle aziende pubbliche e private, dalle parti sociali e dagli operatori del mercato del lavoro [51]. In questo scenario, le aziende sono viste come luogo di promozione di forme di conciliazione e, per questo motivo, è importante il rafforzamento delle misure di sostegno attraverso la creazione di una rete di servizi utili alla gestione della famiglia, nell’ambito del cosiddetto welfare aziendale (come ad esempio, l’allestimento di asili nido aziendali, il contributo a spese per servizi di baby sitting, il sostegno a spese per cura e accudimento di familiari anziani a carico), ma non meno importante appare l’introduzione di forme di flessibilità dell’orario di lavoro (di cui si è già detto) e la possibilità per il lavoratore di optare per modalità quali il part-time, il telelavoro e oggi anche il lavoro agile, così come la previsione di ipotesi di permessi o aspettative ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge e fruibili in concomitanza di eventi particolari. Del resto, il piano di welfare sarà tanto più apprezzato dal lavoratore (e dunque generatore di benessere anche a livello organizzativo), quanto più sarà individualizzato – (o come si suole dire tailor made) [52] – capace perciò di rispondere alle esigenze particolari del singolo. In proposito, giova ricordare che la legge di stabilità 2016 (legge n. 208/2015) ha reintrodotto il riconoscimento della detassazione delle somme legale alla produttività, con particolari previsioni per i benefit aziendali nei confronti dei lavoratori, interamente esclusi dalla base imponibile, ivi compresi quelli connessi all’assistenza ed alla [continua ..]
In fondo, le politiche di conciliazione famiglia-lavoro sono quelle che forse più esplicitamente si prestano ad essere interpretate come una delle possibili ridefinizioni delle politiche sociali in generale, e del lavoro in specifico, in termini di attivazione. Esse mirano, infatti, a incoraggiare la crescita dell’occupazione femminile e al tempo stesso contribuiscono a far restare o ritornare nel mercato coloro che, altrimenti, ne resterebbero esclusi, o meglio escluse. Se le donne accedono e riaccedono al mercato del lavoro, ciò comporta infatti un incremento del reddito familiare, dei consumi, dei contributi sociali e del volume delle imposte versate. Le politiche di conciliazione famiglia-lavoro sono un ambito di policy, in cui il concetto di attivazione trova pertanto applicazione, non solo perché favoriscono la crescita dell’occupazione femminile, ma perché costituiscono una delle possibili strategie di lotta all’esclusione sociale. In tutti i paesi, infatti, le coppie a doppia partecipazione hanno tassi di povertà inferiori alle coppie male breadwinner e ovunque un modello di partecipazione continua al lavoro retribuito delle donne rappresenta la migliore assicurazione contro il rischio di instabilità coniugale, ma anche di disoccupazione. Così le politiche di sostegno alla conciliazione famiglia-lavoro divengono componenti cruciali di un’efficace politica di contrasto alla povertà [56]. Del resto, quella dell’attivazione non è un’idea nuova, ma è un principio presente nei welfare state europei da lungo tempo [57], tanto che, nell’ambito della European Employment Strategy (EES), l’obiettivo dell’attivazione è stato assunto come idea-guida, sia delle politiche del lavoro e di lotta all’esclusione sociale, sia dei processi di ristrutturazione dell’intero welfare state [58]. Anche le politiche della cura, ed in particolare, i servizi per la prima infanzia, per gli anziani fragili o non autosufficienti, per i disabili, sono uno degli strumenti principali delle politiche di conciliazione intese come misure finalizzate all’attivazione. Esse infatti “liberano tempo” a chi ha responsabilità di cura e lo dirottano dal lavoro familiare (non remunerato) al lavoro [continua ..]
Se, da una parte, l’idea dell’attivazione dei singoli, al pari di tutte le politiche, contribuisce allo sgretolarsi dell’idea di cittadinanza come status, nel senso marshalliano, e invece al rafforzamento dell’idea di cittadinanza come contratto, cioè diritti ma anche responsabilità [60], dall’altro, appare che nei dibattiti sulla cittadinanza [61] vengano sempre più inclusi anche nuovi elementi per una nuova ridefinizione dell’idea della cittadinanza [62]. Così, si è iniziato ad includere la dimensione della cura come un elemento fondamentale della “nuova cittadinanza”. Una ridefinizione del concetto di cittadinanza richiede dunque di tenere conto dei nuovi rischi sociali legati ai mutamenti del corso di vita, prestando attenzione ai diritti delle persone emotivamente ed economicamente dipendenti, di chi non è ancora in grado o non è più in grado di stare nel mercato, perché troppo giovane o troppo vecchio, perché non più autosufficiente, per riconoscere i rischi sociali connessi alla scelta di prestare cura, sia in modo remunerato che non remunerato. Sono ormai maturi i tempi per guardare alla cittadinanza sociale in modo nuovo perché la relazione tra welfare state e cittadinanza, tra benessere e diritti, non può più essere pensata come una relazione tra lavoro e welfare, ma tra welfare, lavoro retribuito e lavoro non retribuito (di cura) dei nuovi cittadini che vivono in Europa. Una ridefinizione degli assetti del welfare è necessaria in tutti i paesi ma è particolarmente urgente in un Paese come il nostro, dove la popolazione invecchia rapidamente e dove il welfare ha funzionato basandosi sulla protezione e sui servizi offerti dalla famiglia (gratuitamente dalle donne), dove le politiche a sostegno della cura e delle responsabilità familiari hanno una tradizione debole. Non vi è dubbio che l’insieme dei problemi appena segnalati denoti la necessità di una seria riflessione sul fatto che il settore delle politiche di cura per gli anziani e per i bambini, e i sostegni a chi ha responsabilità di cura, oltre a riguardare il generale benessere degli individui e delle loro famiglie, costituisce uno dei settori cruciali nella lotta contro l’esclusione sociale e la [continua ..]