L’articolo intende fare il punto sul sistema di tutele predisposto dall’ordinamento statale nel mercato del lavoro per la particolare categoria dei lavoratori dipendenti da imprese dichiarate fallite o in liquidazione giudiziale, con particolare riferimento al quadro che si delinea nel sistema del Codice della crisi e dell’insolvenza (d.lgs. n. 14/2019).
The essay makes an overview on the legal instruments of protection in the labour market for the particular category of employees employed by companies which declared bankrupt or incurred in judicial liquidation, with particular reference to the framework outlined in the new Crisis and Insolvency Code (d.lgs. n. 14/2019).
Keywords: Labour market – insolvency – legal protections.
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1. Delimitazione del tema di indagine. Utilità per il lavoratore collocato in quiescenza - 2. Il sistema introdotto dalla legge n. 92/2012 e dal Jobs act: assenza di utilità per il periodo di sospensione al di fuori della CIGS in deroga per crisi aziendale - 3. Il sostegno al reddito nel sistema del Codice della crisi e dell'insolvenza presuppone l'estinzione del rapporto - 4. Una possibile chiave di lettura per le due nuove ipotesi di estinzione del rapporto di lavoro quiescente - 5. Conclusioni - NOTE
Il tema delle tutele del lavoratore nel mercato del lavoro in ipotesi di fallimento o liquidazione giudiziale (per usare le parole del d.lgs. n. 14/2019, c.d. Codice della crisi) è di estrema attualità [1]. Con l’avvertenza che, al riguardo, è previsto fino al 14 agosto 2020 un lungo periodo transitorio di applicazione della disciplina antecedente, identificabile nella legge fallimentare ed in particolare nell’art. 72 [2]. In forza della delega di cui alla recente legge n. 20/2019 (art. 1), durante tale periodo il legislatore potrà intervenire con norme integrative o modificative del Codice della crisi. Il tema specifico della relazione tra fallimento-liquidazione giudiziale e rapporti di lavoro è stato trattato in più occasioni dalla dottrina [3], anche con attenzione al profilo strettamente processuale [4]. Come noto, secondo la giurisprudenza di legittimità anche recente [5], nonostante riflessioni dottrinali di diverso avviso [6], il fallimento (oggi liquidazione giudiziale) determina la sospensione del rapporto di lavoro e della retribuzione in mancanza di prestazione, residuando in capo al lavoratore un duplice interesse, prima di tutto l’interesse alla ripresa dell’esecuzione della prestazione e poi quello ad ottenere da tale stato di quiescenza una serie di “utilità”. L’aspetto delle c.d. utilità è strettamente collegato alle tutele nel mercato del lavoro perché queste utilità, allo stato, si identificano soprattutto in strumenti di fonte eteronoma. È possibile distinguere tra utilità dirette, ove accanto ai classici strumenti di sostegno del reddito (c.d. politiche passive) si sono affiancati, nell’ambito dei servizi per l’impiego, gli strumenti di ricollocazione nel mercato del lavoro (c.d. politiche attive) e utilità indirette, finalizzate a prevenire o contrastare la disoccupazione con incentivi alle assunzioni.
E tuttavia le utilità derivanti dalle c.d. politiche passive sono state progressivamente dismesse: la causale della CIGS per fallimento, prima prevista dalla legge n. 223/1991 (art. 3) è stata limitata ad ipotesi di possibile prosecuzione dell’attività produttiva, e poi eliminata dalla legge n. 92/2012 a decorrere dal 2016 [7]. Si conferma, in altri termini, un sistema di tutele sempre più imperniato sulla conciliazione dei conflitti distributivi con il sostegno alla riorganizzazione produttiva [8], anche sotto il profilo previdenziale. Su questa stessa scia, il sistema del Jobs act (art. 21, d.lgs. n. 148/2015) non “riesuma” la causale CIGS per fallimento, ma conferma un accesso al trattamento CIGS che avviene “di regola” per mezzo di una delle altre tre causali (riorganizzazione, crisi, accordo di solidarietà) e, soprattutto, sempre a fronte di prospettive di ripresa dell’attività. Ma, come spesso accade nel nostro Paese, all’introduzione della regola si affianca da subito l’eccezione e così, dopo avere indicato le tre causali CIGS standard, finalizzate al sostegno in vista della (probabile o almeno possibile) prosecuzione dell’attività, l’art. 21, comma 4, permette l’accesso alla CIGS, previo accordo governativo, anche in presenza di crisi aziendale che determini la cessazione dell’attività, derogando alla regola della prosecuzione e ai limiti di durata di erogazione. Nella versione originaria del 2015 [9], questo ammortizzatore sociale in deroga era ammesso in presenza di «concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda e di un conseguente riassorbimento occupazionale» e comunque transitorio, perché doveva “scomparire” al termine dell’anno 2018. Peraltro, lo strumento era interpretato nella prassi ministeriale in modo molto restrittivo per le procedure concorsuali[10]. Sennonché, quasi in concomitanza all’iter di emanazione del Codice della crisi e dell’insolvenza [11], la CIGS in deroga per crisi con cessazione dell’attività è stata prorogata fino a tutto il 2020, sulla falsariga di esperienze già osservate in passato [12], e riconosciuta anche sulla base di nuovi presupposti applicativi: – oltre a quello già noto, la ricorrenza [continua ..]
Il Codice, al riguardo, non introduce nuove ipotesi di tutela. Eppure, l’esigenza di coordinamento tra la disciplina fallimentare e quella lavoristica non è solo auspicabile ma è espressamente richiesta dalla legge: l’art. 7, comma 7 della legge delega n. 155/2017 prevede un necessario coordinamento tra la disciplina degli effetti della procedura sui rapporti di lavoro subordinato e la legislazione vigente in materia di diritto del lavoro, non soltanto per quanto concerne il licenziamento, il TFR e le modalità di insinuazione al passivo, ma anche le forme assicurative e di integrazione salariale. Ciononostante, il d.lgs. n. 14/2019, tanto per la disciplina transitoria, quanto dopo l’entrata in vigore del Codice, non prevede neppure una disposizione di raccordo. In verità, nella “penultima” versione del Codice era prevista l’introduzione di un trattamento equivalente alla Naspi, la c.d. NaspiLG [14], quale nuova causale di accesso al trattamento previdenziale di cui al d.lgs. n. 22/2015 nel periodo di sospensione del rapporto. Si trattava, in sostanza, di un’anticipazione del trattamento Naspi, alla quale avrebbe avuto diritto il lavoratore sulla medesima base dei contributi versati alla data della liquidazione giudiziale, ottenendo sostegno al reddito, ma anche la possibilità di stipulare il patto di servizio e accedere da subito ai servizi per l’impiego. Se la precedente versione della proposta fosse stata approvata, sarebbe stato derogato il presupposto base di uno stato di disoccupazione involontaria [15]: l’opzione, piuttosto incongruente sul piano sistematico rispetto alla configurazione di fondo degli ammortizzatori sociali fatta propria sin dalla legge n. 92/2012 – trattamenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro soltanto per lavoratori dipendenti da imprese con prospettive di ripresa – avrebbe però ridimensionato gli effetti più drastici connessi alla collocazione in quiescenza. Proprio per evitare incongruenze sistematiche, e accogliendo – per la verità frettolosamente e senza adeguata discussione [16] – l’indicazione dell’11a Commissione permanente del Senato di confermare l’applicazione integrale del d.lgs. n. 22/2015 e in particolare dell’art. 3 in merito al requisito della disoccupazione involontaria, [continua ..]
Di questo ne era e ne è ben conscio il legislatore del Codice che, infatti, all’art. 189 prevede una procedura più snella e rapida di licenziamenti collettivi, applicabile solo all’esito (e in ragione) dell’apertura della liquidazione, indipendentemente dal presupposto di attivazione. Questo resta invariato, perché si tratta sempre della c.d. procedura per la dichiarazione di mobilità ex art. 4 o della riduzione di personale ex art. 24 della legge n. 223/1991, come confermato dall’art. 368 comma 3 del Codice, in funzione di raccordo [17]. L’attivazione della procedura di licenziamento collettivo non è rimessa alla scelta del curatore ed è anzi fatta “salva” nell’applicazione dall’art. 189[18]: la disciplina dei licenziamenti collettivi si conferma norma speciale ed ineludibile, come del resto già affermato dalla giurisprudenza sulla legge fallimentare, anche nel caso di cessazione dell’attività di impresa[19]. In tal senso depone la stessa direttiva 98/59/CE che, fatta eccezione per i casi tassativamente previsti dalla clausola 1, par. 2 non ammette deroghe [20], anche con riferimento all’ipotesi della liquidazione giudiziale [21]. Resta comunque fermo che, nel caso in cui siano interrotti solo alcuni dei rapporti di lavoro, debbano trovare applicazione i criteri di scelta convenzionali o legali così come tradizionalmente elaborati dalla giurisprudenza [22]. Per le ipotesi nelle quali non sia applicabile la procedura del licenziamento collettivo, il legislatore del nuovo Codice introduce altresì due nuovi presupposti di estinzione del rapporto di lavoro: – il recesso senza indugio: «qualora non sia possibile la continuazione o il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo o comunque sussistano manifeste ragioni economiche [23] inerenti all’assetto dell’organizzazione del lavoro», il curatore procede ad intimare il licenziamento «senza indugio e per iscritto». Si evince di certo un obbligo di attivazione immediata e di particolare solerzia per il rappresentante della procedura, a pena di responsabilità risarcitoria. Ad una prima lettura, parrebbe confermato che a tale opzione di scioglimento debba corrispondere un mero insieme di specificazioni o manifeste configurazioni dello stesso, tali da [continua ..]
In conclusione, siamo di fonte ad interventi legislativi poco coerenti a livello sistematico con il sistema della CIGS, poiché essa viene riconosciuta ad imprese che hanno cessato l’attività, evidenziando una presa di coscienza dello scompenso generato dal vuoto di tutele conseguente all’eliminazione della causale CIGS per dichiarazione di fallimento (o altre procedure assimilabili). Non a caso, proprio dopo l’eliminazione della suddetta fattispecie, e delle relative tutele previdenziali, si osserva un rifiorire di interpretazioni dottrinali tra i giuslavoristi, tese a riconoscere un diritto alla retribuzione anche in assenza di prestazione [28]. Nel sistema del Codice permane il fatto che le effettive tutele nel mercato e in particolare l’attivazione dei servizi per l’impiego, al di fuori delle fortunate ipotesi di accesso all’integrazione salariale, passano soltanto per l’estinzione del rapporto di lavoro. Peraltro, allo stato attuale, un lavoratore sospeso in CIGS o in CIGS in deroga secondo la disciplina di legge gode di più chances di reinserimento nel mercato del lavoro del lavoratore disoccupato [29]. Infatti, gli incentivi per i lavoratori in CIGS in deroga [30] sono più consistenti di quelli previsti per l’assunzione di lavoratori in Naspi [31]. E nel mentre è rimasto in vigore l’art. 24 bis, d.lgs. n. 148/2015 che, in forma innovativa quanto opportuna, prevede l’erogazioneA anticipata dell’assegno di ricollocazione per i lavoratori beneficiari di CIGS in situazioni nelle quali non sia espressamente previsto il pieno recupero occupazionale, con consistenti incentivi in caso di accettazione di offerte di lavoro da parte di terzi. Al contrario, il d.l. n. 4/2019 sul reddito di cittadinanza (art. 9, comma 7), conv. in l. n. 96/2019 ha sospeso fino 31 dicembre 2021 l’erogazione dell’assegno per disoccupati di durata superiore a 4 mesi [32], i quali paradossalmente erano i destinatari originari e principali della disciplina. Difetta quindi di regola, allo stato, e si impone per futuri interventi integrativi, la previsione di un sostegno previdenziale al reddito dei lavoratori in costanza di rapporto in caso di liquidazione giudiziale, o almeno una previsione che possa coniugare/contemperare l’esigenza, sempre condivisibile, di evitare forme di [continua ..]