Le retribuzioni per i dipendenti delle cooperative di lavoro vengono determinatEsulla base delle tabelle previste dai contratti collettivi stipulati dai sindacati “comparativamente più rappresentativi”, cui è riconosciuta una rappresentanza più elevata nel settore. L’elemento teleologico del riferimento ai contratti collettivi stipulati dai sindacati “comparativamente più rappresentativi” è la lotta contro il dumping salariale, una piaga sociale che deve essere combattuta con fermezza. Con la recente sentenza 20 febbraio 2019, n. 4951, la Corte di Cassazione è intervenuta in materia di garanzia dei salari minimi per i lavoratori dipendenti da cooperative di lavoro, con un ambito da considerare di portata generale. La Cassazione ha quindi confermato che i contratti collettivi firmati da organizzazioni comparativamente più rappresentative non hanno alcun effetto erga omnes, ma che i salari minimi in essi previsti sono il riferimento per garantire la remunerazione proporzionata e sufficiente di cui all’art. 36 Cost. Di conseguenza, se i contratti collettivi stipulati dai sindacati che non sono “comparativamente più rappresentativi” rispettano o migliorano i salari minimi di cui sopra, sono legittimi in termini di applicazione, garantendo così il principio di libertà e pluralismo dei sindacati ai sensi dell’art. 39 Cost.
The forecast for salaries for employees in work cooperatives is based on that provided for by collective agreements stipulated by trade unions which have a higher representation in the reference sector: “comparatively more representative”. The teleological element of this reference to the collective contracts stipulated by the “comparatively more representative” unions is the fight against wage dumping, a social plague that must be firmly fought. With the recent judgment of 20 February 2019, n. 4951, the Court of Cassation intervened in the matter of guaranteeing the minimum wages for workers dependent on work cooperatives, with a scope to be considered general. The Cassation then confirmed that the collective agreements signed by the comparatively more representative organizations have no effect erga omnes but that the minimum wages in them provided are the reference to ensure the proportionate and sufficient remuneration set forth in Article 36 of the Constitution. Consequently, if the collective agreements stipulated by trade unions that are not “comparatively more representative” respect or improve the aforementioned minimum wages, they are legitimate in terms of application, thus guaranteeing the principle of freedom and pluralism of the trade unions pursuant to Article 39 of the Constitution.
Keywords: Third sector – social cooperatives – collective bargaining – minimum wage.
Articoli Correlati: terzo settore - cooperative sociali - contrattazione collettiva - salario minimo
1. Introduzione - 2. Legge e contrattazione collettiva per i lavoratori delle cooperative - 3. Il contrasto al dumping sociale e il salario minimo legale - 4. La sentenza n. 4951/2019 della Cassazione - 5. Annotazione conclusiva - NOTE
Un’analisi, sia pure nei limiti imposti dall’esigenza di brevità di un articolo, del tema della disciplina del lavoro nelle cooperative, operanti nel Terzo settore, non può prescindere da una breve introduzione sulla disciplina lavoristica rinvenibile nella nuova cornice normativa del Terzo settore, le cui disposizioni di maggior rilievo si riscontrano nell’art. 16, d.lgs. n. 117/2017 (Lavoro negli enti del Terzo settore) e nell’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 112/2017 (Lavoro nell’impresa sociale). Tali previsioni fissano alcune regole comuni che investono, in particolare, la materia retributiva, così come il ricorso al lavoro dei volontari e dei soggetti svantaggiati e disabili; ricorso che risulta modulato in ragione della tipologia di ente presso quale il soggetto si trova ad essere inserito. Per il resto, il legislatore del 2017 opera un ampio rinvio alla disciplina contrattuale. Ed invero, i due richiamati articoli “gemelli” prevedono, innanzitutto, che i lavoratori degli ETS «hanno diritto a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali, di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81». L’integrazione tra disciplina legale e regole contrattuali è operata attraverso l’esplicito richiamo alla “norma di chiusura” del decreto n. 81/2015; norma che, come è noto, individua, con regola generale, i contratti collettivi, oggetto di rinvio legislativo nelle materie individuate da quello stesso decreto, nonché i livelli nei quali potrà essere articolato il procedimento di contrattazione [1]. La formulazione dell’art. 51, d.lgs. n. 81/2015 ha sollevato significativi problemi interpretativi [2], che rilevano ai fini del presente intervento, rivolto a focalizzare il tema del lavoro dipendente nelle cooperative, anche alla luce dei significativi rilievi dottrinali sotto il profilo costituzionale, elaborati nel tempo [3].
La previsione relativa ai contratti collettivi da applicare al lavoro dipendente nelle cooperative di lavoro è contenuta nell’art. 7, comma 4, decreto legge n. 248/2007, convertito in legge n. 31/2008, secondo il quale «in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti [...] applicano ai propri soci lavoratori [...] i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria». Il legislatore ha utilizzato come retribuzione di riferimento quella prevista dai contratti collettivi stipulati dai sindacati, che hanno una rappresentatività più elevata nel settore di riferimento.
L’elemento teleologico di tale riferimento ai contratti collettivi stipulati dai sindacati «comparativamente più rappresentativi» è il contrasto al dumping salariale, una piaga sociale che va fermamente combattuta. Come è noto il nostro Paese, contrariamente alla grande parte degli altri Stati dell’Unione europea, non ha adottato l’istituto in forma generalizzata del salario minimo legale [4], oggetto anche di un confronto tra il precedente governo e i sindacati [5], anche se la legge delega n. 183/2014 di attuazione della generale riforma del diritto del lavoro in Italia denominata “Jobs Act” ne prevedeva l’adozione nei settori sprovvisti di contrattazione collettiva [6], con il vincolo dell’equilibrio tra legge e autonomia collettiva; previsione poi stralciata. Lo scopo del salario minimo legale in ambito euro-unitario è quello di contrastare la competitività dei singoli paesi perseguita attraverso il dumping sociale, che favorisce anche le delocalizzazioni. Una prospettiva di «federalizzazione dei fondamenti della cittadinanza sociale» [7], da costruire anche attraverso la realizzazione di strutture sovranazionali di welfare [8] per aumentare i livelli di protezione sociale [9], invero sottoposti a continue compressioni e riduzioni dalle politiche di contenimento della spesa pubblica legata all’austerity europea [10]. I modelli più diffusi in Europa sono quello negoziale e quello consultivo. Nel primo, gli attori sociali sono parte integrante dell’organismo che decide il salario minimo. Nel secondo modello, invece, le parti sociali vengono solo consultate dall’organismo istituzionale senza farne parte [11]. Orbene, è opportuno rappresentare che la regolamentazione del salario minimo [12] non è completamente estranea alla più recente legislazione italiana, nella quale, invece, si rintracciano alcuni esempi di fissazione, almeno sul piano formale, dei minimi salariali per legge, che invero non sono vere e proprie ipotesi di salario minimo legale, ma piuttosto meccanismi volti a riconoscere l’efficacia generalizzata ai trattamenti economici previsti da determinati contratti collettivi. Ma la scelta di individuare attraverso i contratti collettivi nazionali [continua ..]
Con la recente sentenza 20 febbraio 2019, n. 4951, la Cassazione è intervenuta in materia di garanzia dei minimi di retribuzione per i lavoratori dipendenti dalle cooperative di lavoro [16], ma con una portata da ritenersi, appunto, generale. Con tale pronunzia la Suprema Corte ha ribadito un principio già contenuto nella sentenza 51/2015 della Corte Costituzionale [17]. La Cassazione quindi, ha confermato che i contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative non hanno efficacia erga omnes, ma che i minimi salariali in essi previsti costituiscono il riferimento per garantire la retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art 36 Cost.. Conseguentemente, se i contratti collettivi stipulati da organizzazioni sindacali non “comparativamente più rappresentative” rispettano o migliorano i richiamati minimi salariali, essi sono legittimi sotto il profilo applicativo, inibendo conseguentemente l’applicazione sic et simpliciter della circ. n. 3/2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro [18]. A tal proposito, alla luce di questa sentenza, va letto e interpretato anche l’art. 1, comma 1175, legge n. 296/2006, laddove, ai fini della fruizione dei benefici contributivi pubblici, dispone il “rispetto” dei CCNL sottoscritti dalle organizzazioni sindacali “comparativamente più rappresentative”. Dopo la sentenza della Suprema Corte si è ravvisata l’inderogabile esigenza legale di procedere alla revisione della prefata circ. n. 3/2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro [19], che poneva come condizione per la fruizione delle guarentigie contributive l’“applicazione” dei Contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, piuttosto che il “rispetto” di tali contratti come disposto dallo stesso art. 1, comma 1175 della legge n. 296/2006, talché l’INL ha provveduto ad emanare una nuova circolare, la n. 7 del 6 maggio 2019 [20], in linea con la giurisprudenza di nomofilachia, in ordine proprio all’art. 1, comma 1175, legge n. 296/2006. Tale circolare quindi, riscontra quanto previsto dal decreto legge n. 248/2007 in materia di retribuzione dei soci di cooperativa [21], nonché la recente giurisprudenza [continua ..]
Dall’assetto come ricostruito non deriva alcun rischio di lesione del principio di libertà sindacale e del pluralismo sindacale. La scelta legislativa di dare attuazione all’art. 36 Cost., fissando standard minimi inderogabili validi sul territorio nazionale, a tal fine generalizzando l’obbligo di rispettare i trattamenti minimi fissati dai contratti collettivi conclusi dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria, non può far venir meno il diritto delle organizzazioni ritenute minoritarie ovvero solo più rappresentative senza il crisma del “comparativamente”, di esercitare la libertà sindacale attraverso la stipula di contratti collettivi, ma limita nei contenuti tale libertà, dovendo essere comunque garantiti livelli retributivi almeno uguali a quelli minimi normativamente imposti. Parimenti, le singole società cooperative potranno scegliere il contratto collettivo da applicare ma non potranno riservare ai soci lavoratori un trattamento economico complessivo inferiore a quello che il legislatore ha ritenuto idoneo a soddisfare i requisiti di sufficienza e proporzionalità della retribuzione. La sentenza in esame conseguentemente, non può avere una portata limitata all’area del lavoro nelle cooperative di lavoro, ma definisce un criterio ermeneutico relativo al tema dell’obbligo di utilizzazione dei minimi retributivi dei contratti collettivi stipulati dai sindacati “comparativamente più rappresentativi”, nel rispetto dei principi di libertà e pluralismo sindacali e contrattuali, con la conseguenza di un’applicazione generalizzata, in attesa dell’auspicabile intervento eteronomo, auspicabilmente recettivo ma non recessivo [24] rispetto all’autonomia collettiva, da parte del legislatore di attuazione, alla luce del diritto vivente, dell’art. 39 Cost. [25].