Il contributo esamina la tensione esistente tra sostenibilità economica e sostenibilità sociale del modello italiano di previdenza sociale, in un’ottica di confronto tra valori costituzionali.
* Il contributo riprende ed aggiorna la relazione resa nell’ambito del ciclo di conferenze magistrati “La più bella del mondo? – La Costituzione italiana nel suo 70° anniversario”, in Bologna, il 24 ottobre 2018.
The paper examines the tension between economic sustainability and social sustainability of the Italian social security model, with a view to comparing constitutional values.
Keywords: Social security – Constitution – social assistance.
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1. Sostenibilità economica e sostenibilità sociale - 2. Gli interventi della Corte Costituzionale - 3. I prodromi della crisi del modello - 4. Il tentativo di invertire la tendenza - 5. L’esigenza di riconfigurare il modello - 6. La solidarietà intergenerazionale - 7. Crisi e diritti sociali - 8. Il reddito di inclusione - 9. Le tutele oggetto dell’art. 38, comma 1, Cost. - 10. Il baricentro delle tutele - 11. Le prospettive di intervento - NOTE
È esperienza comune che gli ultimi decenni del nostro sistema previdenziale siano stati segnati dal tentativo di rendere compatibile la sostenibilità economica e la sostenibilità sociale del modello, attraverso una modulazione della distribuzione dei sacrifici, non sempre ritenuta corrispondente, sia alla ragionevolezza, che all’equità [1]. In questo dibattito ha avuto peso anche il tema del rapporto tra generazioni, tanto più sensibile in un contesto di incisiva e rapida elevazione dell’età pensionabile, di una generalizzazione del modello contributivo (tanto più penalizzante in una situazione di crescente disoccupazione giovanile e di prevalenza, comunque, di lavori precari), e di conservazione del sistema a ripartizione (seppur ancorato, quanto al computo della prestazione, ad una capitalizzazione virtuale) [2]. La “sostenibilità sociale” diviene sempre più precaria, rendendo del tutto incerto il rispetto dei precetti costituzionali ed, in particolare, quello dell’adeguatezza delle prestazioni di cui al comma 2 dell’art. 38 Cost., ormai rimessa alla discrezionalità del legislatore, che, come vedremo a breve, tende a travolgere non solo le aspettative ragionevoli, ma anche i diritti quesiti [3]. In proposito, la stessa capacità dello Stato sociale di operare in liberazione dal bisogno è sempre più condizionata da fattori diversi, mutevoli nel tempo, tra cui, non ultimo, la partecipazione all’Unione europea. Questa dipendenza del welfare dalla ricerca di un equilibrio tra variabili demografiche, sociali ed economiche spiega la continua dialettica tra sostenibilità ed adeguatezza, oscillante tra la tutela del bisogno di liberazione dalla povertà e tendenza alla conservazione del reddito acquisito nella vita lavorativa [4].
Peraltro, il quadro è reso più complesso ed articolato dagli interventi della Corte Costituzionale nel periodo 2015-2017 (consolidatisi anche nelle successive decisioni del 2018 [5], che indubbiamente tendono a mettere ordine nel sistema tracciando confini più netti per la discrezionalità del legislatore in materia previdenziale, con una valorizzazione più attenta e rigorosa della ragionevolezza e della proporzionalità in chiave di bilanciamento tra diritti previdenziali e necessità di bilancio. Sicuramente centrale al riguardo è la sentenza n. 70/2015 [6] (i cui principi sono stati ribaditi nella successiva decisione n. 250/2017 [7]) difensiva del diritto alla perequazione automatica, la cui temprabilità viene correlata alla dimensione quantitativa della prestazione, e quindi al bisogno, che ha trovato un apprezzamento da parte dei commentatori, salvo isolate eccezioni. Ancor più significativo, nel quadro attuale, appare poi l’intervento che legittima il contributo di solidarietà, di cui alla sentenza n. 173/2016, condizionandolo, oltre che alla temporaneità, anche alla destinazione endo-previdenziale, con apprezzamento della recezione da parte del legislatore delle indicazioni di cui alla sentenza n. 116/2013, che ne aveva sancito l’illegittimità nella sua versione tributaria, in quanto impositivo di un prelievo non rivolto alla generalità dei cittadini, ma ad una collettività specifica in contrasto ai principi costituzionali [8]. Le stesse decisioni della Corte Costituzionale, che indubbiamente hanno iniziato a riportare a sistema gli estemporanei e disordinati interventi legislativi, non possono non assumere a riferimento, per un ragionevole bilanciamento, dei valori costituzionali vecchi e nuovi, il mutamento del quadro demografico e del rapporto tra attivi e pensionati, che ha generato la frattura tra il passato a generosità diffusa ed il futuro ad incerta garanzia, nel momento in cui il processo di invecchiamento nel nostro Paese ha subito un incremento così significativo da non essere più in linea, in quanto eccessivo, con tutte le medie europee e mondiali [9]. E, del resto, le tensioni indotte nel nostro welfare, appaiono anche conseguenza, come si avrà modo di chiarire a breve, dell’aver messo “tutto” in un «sistema [continua ..]
La realtà è che i problemi dell’oggi vengono da lontano: già dagli anni ’60 del secolo scorso (in una fase in cui vengono meno molte delle condizioni che avevano favorito lo sviluppo del miracolo economico italiano), nei quali si concretizza una straordinaria operazione distorsiva del nostro welfare, con la concentrazione dell’utilizzo delle risorse pubbliche sulle pensioni (la riforma di cui alla legge n. 153/1969) e sulla nuova cassa integrazione guadagni straordinaria (di cui alla legge n. 1115/1968), che getta le basi per lo sviluppo e il consolidamento di uno sbilanciamento di tutto il nostro modello di protezione sociale [11]. In particolare, l’effetto è una doppia distorsione, rilevabile tutt’ora, malgrado il susseguirsi, a partire dagli anni ’90, di interventi correttivi: funzionale, in quanto, come anticipato, gran parte della spesa sociale è assorbita dal sistema pensionistico e, in minor misura, dall’integrazione salariale, a discapito degli altri rischi e bisogni sociali (famiglia, minori, inoccupati e disoccupati, ecc.); distributiva, per il netto divario di protezione (in termini di acceso e di entità) all’interno delle stesse funzioni di spesa (compresa quella pensionistica) fra le diverse categorie occupazionali, risultandone una netta segmentazione fra insider (o garantiti, essenzialmente lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche e delle grandi imprese) ed outsider (o non garantiti, principalmente lavoratori relegati nell’economia sommersa) [12]. Tale effetto si concretizza a partire dall’inizio degli anni ’70, evidenziandosi in termini macroscopici all’inizio degli anni ’90 (portando ai primi interventi correttivi). Esso si esplicita, da un lato, in una robusta espansione della spesa pensionistica, generosa, casuale e disordinata [13], dall’altro, nella trasformazione della Cassa integrazione guadagni straordinaria da istituto finalizzato a supportare le imprese e l’occupazione per situazioni di temporanea difficoltà (alternativo all’ordinaria solo per il maggior arco temporale di intervento), ad istituto con “finalità di politica economica ed industriale”, sul presupposto che la crisi delle imprese e di interi settori produttivi sia, in questa fase storica, un elemento strutturale e fisiologico [14].
Il trend di crescita trova un’inversione di tendenza con la riforma del 1995, che opera, con un processo concertativo mirato, una definitiva razionalizzazione del sistema pensionistico, secondo un «modello previdenziale centrato non sulla liberazione dal bisogno della povertà ma sulla restituzione del risparmio accantonato nella vita lavorativa» [15]. Tale nuovo assetto regolativo ha però scontato un lungo ed oneroso periodo transitorio, che ha rallentato gli effetti della riforma quanto al contenimento della spesa previdenziale. Così, a partire dagli anni 2000, si registra una serie disorganica di provvedimenti diretti ad elevare l’età pensionabile per fare fronte all’invecchiamento demografico, che destabilizza la riforma del 1995, ancor prima della sua entrata in vigore, in quanto moltiplica gli oneri del periodo transitorio, perché determina una durata più lunga delle pensioni retributive (già liquidate o da liquidare, integralmente o pro rata), e quindi un livello di spesa più elevato di quanto a suo tempo preventivato [16]. Nel 2008 la crisi economico-finanziaria assume da subito una dimensione globale: gli effetti investono anzitutto le dinamiche occupazionali ed infatti, in Italia, i primi investimenti si concentrano sugli ammortizzatori sociali [17]; ben presto, tuttavia, questi interventi investono anche il versante pensionistico (legge n. 122/2010, legge n. 183/2010), con misure di ulteriore innalzamento dell’età di pensionamento, sia attraverso ulteriori differimenti del godimento delle prestazioni, con la tecnica già sperimentata delle c.d. “finestre”, sia attraverso ulteriori innalzamenti dei requisiti anagrafici per la maturazione del diritto, nonché di contrasto all’indebito utilizzo delle prestazioni legate al reddito, all’invalidità/inabilità ovvero, ancora, di penalizzazione delle ricongiunzioni e delle totalizzazioni dei periodi assicurativi frazionati in più regimi [18]. Questo insieme di provvedimenti, disordinatamente rivolti a contenere la spesa previdenziale, ed insieme a salvaguardare il reddito dei prestatori d’opera coinvolti nelle crisi occupazionali, vengono travolti dal nuovo infiammarsi della crisi economica nell’estate del 2011. Le pressioni provenienti dall’Unione europea portano a due [continua ..]
Tutti gli interventi di cui si è dato conto, pur operando in sostanziale discontinuità rispetto al passato mancano, però, di un complessivo disegno riformatore. Da qui l’esigenza, già avvertita da tempo, di una “riconfigurazione” del “sistema previdenziale e assistenziale su nuove basi”, per fare in modo che esso possa acquisire una “fisionomia” più consona «alle nuove realtà, tanto sociali, quanto economiche» [21]. In tal senso, a fronte della persistenza del sistema a ripartizione (stante la sua irreversibilità), anche nel contesto del passaggio dal retributivo al contributivo, che richiede ai giovani, instabili e precari, di finanziare le pensioni degli anziani, scontandone generosità e durata più prolungata rispetto alle previsioni (peraltro con la promessa di prestazioni future a bassa consistenza e significatività), si apre il dibattito sull’equità generazionale, consolidandosi un nuovo filone di pensiero – che sembrava avere ispirato anche il Governo Conte, nella originaria formulazione del “taglio alle pensioni d’oro”, che generalizzava la ardita “sperimentazione” da ultimo posta in essere con il taglio, per mezzo del ricalcolo, dei vitalizi dei parlamentari – che ipotizza interventi più massicci sui diritti quesiti dei pensionati (sino al citato di ricalcolo contributivo di tutte le pensioni retributive in essere), non più in nome del pareggio di bilancio, ma dell’equità, laddove la riduzione delle prestazioni in essere sarebbe funzionale a garantire un maggior benessere alle generazioni future [22].
Sul punto, però, mi sento di richiamare il pensiero di Maurizio Cinelli, il quale ha correttamente rilevato che «la delicatezza della questione della solidarietà intergenerazionale non può essere sottovalutata. E, tuttavia, l’impressione è che, al presente, tale questione tenda ad essere apprezzata più con i sentimenti, che con la ragione». «Impossibile», nota ancora Cinelli, «non ricordare, innanzitutto, che tale particolare manifestazione della solidarietà è espressione di una sorta di “catena” che si snoda nel tempo. È, dunque, arduo sottrarsi all’imbarazzo di fronte a programmi ed interventi che, in nome della sorte degli “anelli” successivi di quella catena, appaiono dimentichi del fatto che l’anello, sul quale si pretende di incidere nell’attualità, è sostenuto da quelli che lo hanno preceduto; e che, pertanto, un suo indebolimento in funzione di esigenze a venire possa di fatto convertirsi esso stesso in una sorta di tradimento, in un vulnus di quel vincolo della solidarietà intergenerazionale, che pur si invoca, in un vulnus, cioè, alle stesse logiche di convivenza della quali lo specifico meccanismo è espressione» [23]. Insomma, si deve prendere atto che «l’argomento che fa leva sul patto generazionale appare più frutto di uno stereotipo, che un argomento realmente appropriato». Sembra, anzi, di poter dire che esso viene utilizzato per mettere in ombra possibili opzioni politiche alternative, funzionali al recupero di effettività dell’assetto costituzionale, quali, ad esempio, l’utilizzo della leva fiscale.
In questo quadro, si fa peraltro via via più stringente l’interrogativo se il diritto della crisi possa giustificare un indebolimento dei diritti sociali, anche in nome degli impegni assunti con l’Unione europea in ordine all’equilibrio di bilancio ed alla libertà del mercato, senza generare fratture non più sanabili nella società civile, nonché senza entrare in contrasto con il complessivo disegno costituzionale. Così, assumono una nuova centralità i concetti di precarietà e di disuguaglianza e torna ad affacciarsi con prepotenza la richiesta di un reddito minimo garantito, declinato sotto le diverse angolazioni del lavoro, della previdenza, dell’assistenza, della cittadinanza [24]. La realtà è che oggi il sistema del welfare scopre – di fronte alla crescente dimensione della povertà e dell’esclusione sociale – che il suo assetto costituzionale aveva del tutto accantonato, nell’art. 38, comma 1, Cost., la problematica dei bisogni di quei soggetti che, pur abili al lavoro, si vengano a trovare comunque, per ragioni personali o ambientali in situazione di oggettiva difficoltà, non essendo in grado di far fronte in modo autonomo alle ordinarie esigenze di vita; nonché ancora, nell’art. 38, comma 2, Cost., che l’attenzione è concentrata solo sulla tutela del disoccupato, escludendo una protezione economica per l’inoccupato in cerca del primo inserimento sul mercato del lavoro. In altre parole, scopre che a seguito di una stratificazione legislativa incerta e disordinata, il suo welfare non ha costruito ancora un sistema universale di protezione sociale.
A questo quadro di riferimento, il precedente Governo ha tentato di porre un (ridotto) rimedio con l’istituzione del “il reddito di inclusione”, destinato ai nuclei familiari in situazioni di disagio [25]. Purtroppo, la prestazione in questione si colloca ancora una volta nell’alveo di quelle misure temporanee, sperimentali ed eventuali, che evidenziano, da un lato, gli stanziamenti a bilancio, limitati al biennio, e, dall’altro, la selettività dei criteri di accesso che (a correttivo del premio alla celerità nella richiesta del sussidio) avrebbero dovuto privilegiare la dimensione del nucleo familiare e la presenza nello stesso di figli disabili, di donne in gravidanza e di ultracinquantenni disoccupati in condizioni di bisogno, fermi restando i vincoli di condizionalità, con correlata decadenza del beneficio in ipotesi di mancata partecipazione ad iniziative di ricollocazione sul mercato del lavoro [26]. In qualche misura la legge del 2017 richiama la legge n. 328/2000, che, puntando a delegare ai Comuni le competenze amministrative per il contrasto alla povertà, aveva prodotto (grazie, sia alla scarsità dei fondi stanziati, sia alla mancata determinazione dei livelli essenziali dei servizi offerti) pochi, isolati e disordinati interventi sperimentali, con risultati modesti ed in ogni caso del tutto differenziati sul territorio nazionale [27]. Anche in questo caso, infatti, come con la legge n. 328/2000, il legislatore ha, quindi, preferito proseguire nella farraginosa via italiana all’universalismo per sommatoria, continuando ad impegnarsi in uno sperimentalismo frammentario e disorganico, piuttosto che operare una integrale riscrittura di tutto il sistema di assistenza sociale, tra l’altro con possibili esigenze di modifiche costituzionali.
Le criticità di intervento in ordine al reddito di cittadinanza sono però genetiche, in quanto il nostro welfare non è stato concepito dai nostri Padri costituenti sull’idea di un reddito universale che prescinda dal lavoro. Ne è riprova l’enfasi dell’art. 1 Cost., il richiamo al diritto/dovere al lavoro oggetto dell’art. 4 Cost., che illumina il comma 2 dello stesso art. 3, nonché la struttura dell’art 38 Cost., che al comma 1, riconosce il diritto “al mantenimento e all’assistenza sociale” solo al cittadino “inabile al lavoro”. In coerenza, il legislatore italiano si è limitato a prevedere una prestazione solo a favore degli invalidi civili, nonché successivamente degli ultrasessantacinquenni in disagiate condizioni economiche, essendo l’universalizzazione del servizio sanitario imputabile all’art. 32 Cost. Mancava, infatti, e manca tutt’ora, una previsione costituzionale che sia rivolta ad assicurare aiuto a quanti, pur dotati di piena capacità lavorativa, si trovino in situazione di bisogno per mancanza di occupazione (non avendo diritto, o più diritto agli ammortizzatori sociali) e/o per situazioni di disagio personale o familiare. Non casualmente, del resto, i sostenitori del reddito di cittadinanza fanno leva sullo spazio lasciato dalla Corte costituzionale alla discrezionalità del legislatore per operare una sorta di passaggio sotto traccia della classica struttura categoriale del nostro welfare ad una dimensione universalistica ed inclusiva, seppur ancora solo nell’area dell’assistenza sociale, appoggiandosi anche agli artt. 2 Cost, in combinato con il comma 2 dell’art. 3 Cost., e 117 Cost.; ovvero utilizzando riferimenti normativi sovranazionali, con particolare richiamo all’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove, proprio con riferimento all’assistenza sociale, si va ben oltre il riferimento al mantenimento, configurandosi un diritto ad un’esistenza libera, dignitosa e socialmente accettabile [28]. E, d’altro canto, nell’impianto costituzionale e nella sua concretizzazione è sempre persistita la convinzione dell’inopportunità di metter mano ad un progetto di universalizzazione dell’assistenza sociale, anzitutto, perché [continua ..]
La realtà è, comunque, che il modello di welfare voluto dal costituente ha una chiara matrice assicurativa baricentrata tutta sul lavoro, così che la sua universalizzazione, sia in materia pensionistica, che quanto agli ammortizzatori sociali, si è concretizzata per via di estensione graduale ed onnicomprensiva dell’obbligo assicurativo; con l’ulteriore conseguenza di limitare l’assistenza sociale, nella sua dimensione generale, solo ad interventi rivolti a coloro che al lavoro non potevano accedere ab origine per invalidità ovvero, successivamente, a coloro che non potevano più accedervi per età [32]. In questo panorama, risulta sicuramente arduo, sotto il profilo della copertura costituzionale, l’inserimento nel modello ordinamentale di un reddito di cittadinanza, tanto più che molti dei suoi numerosi sostenitori si sottraggono alla problematica dei raccordi con il diritto del lavoro, il diritto sindacale ed il diritto della previdenza sociale, nonché insieme a quella della compatibilità economico-finanziaria, preferendo impostare il discorso sulla teoria meta-giuridica del diritto etico ad un reddito universale [33]. Peraltro, uno dei profili maggiormente critici risulta essere il raccordo tra il reddito di cittadinanza ed la disciplina degli ammortizzatori sociali nel suo articolato dispiegarsi, sul quale, in particolare, pesano le diverse valutazioni in ordine al processo di universalizzazione dei secondi, condotto in più fini, e si può dire concluso, dopo il passaggio della legge n. 92/2012, con il d.lgs. n. 148/2015 ed il successivo d.lgs. correttivo n. 185/2016, laddove i sostenitori del reddito di cittadinanza contestano, per un verso, che l’espulsione della platea dei destinatari è stata comunque relativa, restano esclusi tutti i dipendenti delle piccolissime imprese, che pure rappresentano una percentuale significativa della forza lavoro, per l’altro, che l’impianto della riforma è ancora marcatamente assicurativo, secondo un modello di complementarietà tra l’intervento pubblico, concentrato sui settori di applicazione dell’integrazione salariale, e l’intervento privato, affidato alla bilateralità, per i settori esclusi [34]. Peraltro, l’innegabile [continua ..]
In ogni caso, l’esigenza dell’intervento (che l’attuale Governo ha realizzato all’indomani dell’approvazione della legge di stabilità per il 2019) è avvertita come correttiva delle nuove tensioni che investono il welfare e lo stesso – volendo richiamare le parole di un’attenta dottrina, che ha superato con equilibrio molte obiezioni rispetto all’istituto – viene percepito come «cruciale per la legittimazione degli stessi sistemi di protezione sociale» per ridurre «le impressionanti disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza, anche oltre la dimensione minimale del mero contrasto delle situazioni di esclusione sociale e di povertà» [35]. In merito, si non può sottacersi che l’intervento relativo al reddito di cittadinanza si colloca nell’alveo della legge delega n. 33/2017 per il contrasto alla povertà, mirando a convertire il reddito di inserimento, da misura temporanea e sperimentale in misura strutturale; ovviamente il passaggio richiede, anche pro futuro, una congrua dotazione di risorse (rispetto alla quale sono tutti da valutare nel medio-lungo periodo gli impatti, per verso, delle censure provenienti dalle istituzioni europee e, per altro verso, della reazione dei mercati ad un finanziamento che, allo stato, non può che realizzarsi in deficit) e, quindi, l’effettiva universalizzazione dell’istituto; peraltro l’operazione di fatto si svolge in un contesto favorevole, laddove il riferimento del reddito d’inserimento è il nucleo familiare (con la conseguente utilizzabilità del già sperimentato strumentario dell’indicatore della situazione economica equivalente) e l’utilizzo della condizionalità è modulato in relazione all’identità dei soggetti beneficiari. In tale prospettiva risultano stemperati anche i problemi di raccordo con il sistema degli ammortizzatori sociali e con le dinamiche dell’autonomia collettiva, perché l’impianto del reddito d’inserimento pare articolarsi in chiave dialogica con queste aree di azione, laddove l’entità della prestazione economica è correlata alla dimensione del bisogno, così da porsi ora come sostitutiva (dell’assenza di reddito), ora integrativa (della scarsità di reddito), [continua ..]