Il saggio esamina la disciplina del reddito di cittadinanza mettendone in evidenza gli effetti negativi sotto l’aspetto della dignità del lavoro.
The essay examines the discipline of citizenship income highlighting the negative effects in terms of the dignity of labour.
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1. La dignità del lavoro nella costituzione - 2. L’effetto disincentivante del reddito di cittadinanza nei confronti del lavoro - 3. “Offerte di lavoro congrue” e posti di lavoro inesistenti - NOTE
Il grido dell’operaio durante l’ennesima manifestazione “pro-TAV” di Torino: «non voglio il reddito di cittadinanza; voglio un cantiere in cui lavorare; voglio un lavoro dignitoso e sicuro», è l’emblema più efficace di ciò che si nasconde dietro la farraginosa legge sul reddito di cittadinanza (legge 28 gennaio 2019, n. 26, che ha conv. con modif. il decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4), delle sue contraddizioni, della sua inefficacia e della sua ipocrisia. L’art. 1 di tale legge si apre con un’enunciazione molto impegnativa: «È istituito … il reddito di cittadinanza … quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro». Nel nostro ordinamento la dignità del lavoro è materia molto seria e delicata che quindi merita di essere trattata con attenzione, senza pressapochismo o, peggio, strumentalizzazioni a fini elettorali. Come è ampiamente noto, a differenza dello Statuto Albertino e delle altre Costituzioni europee di fine Settecento e Ottocento, la nostra Costituzione inserì il lavoro tra i fondamenti del nuovo Stato, per cui l’espressione “fondata sul lavoro” segna il tema di tutta la nostra Carta Fondamentale [1]. Conseguentemente la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato che il lavoro non rappresenta solo un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma è altresì un mezzo di estrinsecazione della personalità, ai sensi degli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. Secondo la Consulta, il diritto fondamentale di realizzare lo sviluppo della personalità, attribuito dall’art. 3 Cost., viene attuato principalmente attraverso il lavoro [2]. È, questa, una concezione “lavorocentrica” dell’uomo proprio perché postula che lo sviluppo della personalità venga attuato essenzialmente mediante il lavoro [3], tanto da far parlare di «glorificazione teoretica del lavoro» [4]. La dignità dell’uomo che lavora è un valore assoluto che permea di sé tutto l’ordinamento e che va al di là del tipo di attività svolta, parificando i lavori gratificanti, creativi, non ripetitivi, con quelli alienanti, penosi, monotoni, parcellizzati o addirittura usuranti. Neppure questi lavori [continua ..]
Da questo quadro emerge un altro principio fondamentale: nel nostro ordinamento il lavoro, come mezzo di realizzazione della persona e come una delle componenti della sua dignità, deve essere incentivato o, comunque, sicuramente non può essere disincentivato né dallo Stato, né dal Legislatore. Una legge che finisca per avere obiettivamente questa finalità, al di là delle roboanti dichiarazioni di principio, rischia di essere incostituzionale per violazione degli artt. 3, 4 e 35 Cost. Ma anche se non lo fosse, sicuramente sarebbe una pessima legge. Il quesito che si pone è dunque se la legge sul reddito di cittadinanza disincentivi o no il lavoro o la sua ricerca. Dall’esame della farraginosa e tecnicamente pessima normativa, la risposta è purtroppo affermativa [9]. Invero, per percepire l’equivalente netto previsto per il reddito di cittadinanza, circa 780 euro esentasse mensili, un dipendente inquadrato in un livello medio deve lavorare circa cinque ore per cinque giorni alla settimana per quattro settimane; deve invece lavorare circa otto ore al giorno per cinque giorni a settimana con inquadramento medio alto, il dipendente che voglia percepire una retribuzione netta equivalente alla misura massima a cui può arrivare il reddito, e cioè a 1.600,00 euro esentasse al mese (se nella famiglia ci sono minorenni: art. 3, comma 1, lett. a), che richiama l’art. 2, comma 4). Invece il beneficiario del reddito di cittadinanza deve (tranne le non pochissime esclusioni) assicurare la disponibilità per sole otto ore settimanali, aumentabili “al massimo” a sedici, però solo con il consenso del destinatario (art. 15). Peraltro, disponibilità non si sa bene per fare cosa, in quanto la norma si riferisce vagamente a «progetti a titolarità dei Comuni, utili alla collettività in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni»; oltretutto questa già limitata disponibilità è per progetti da svolgere rigorosamente solo nel Comune di residenza, anche se la distanza con altri Comuni limitrofi fosse di pochi chilometri. Del resto l’art. 3, comma 6, prevede che il reddito di cittadinanza, erogato per un periodo iniziale di 18 mesi (quindi, per inciso, superiore alla durata annuale del contratto a termine acausale), “può essere [continua ..]
Questi effetti negativi non sono superabili con la disciplina, altrettanto farraginosa e comunque velleitaria, che riguarda le “offerte di lavoro”, con il connesso apparato di “navigator”, giustamente definita «soltanto uno specchietto per le allodole» [11]. Intanto la platea dei soggetti esonerati anche dal dover accettare il “patto per il lavoro” potrebbe diventare notevolmente più ampia, in quanto la legge lascia la possibilità di individuare ulteriori esenzioni, oltre quelle previste dalla legge, in sede di Conferenza Stato-Regioni, senza prescrivere comunque criteri predeterminati. Ma il problema principale risiede nel fatto che, se i posti di lavoro non ci sono in una determinata zona, non li crea certo il navigator, né i Servizi per l’impiego, considerata, tra l’altro, la loro incapacità di intermediazione nel mercato del lavoro, anche in relazione a posti esistenti. Di qui l’ovvia riflessione sulla preferenza, se proprio si vuole continuare a perseverare nel “decifit spending”, per la spesa pubblica che crei posti di lavoro. Oltretutto, nella specie, non si deve trattare di qualsiasi tipo di posto di lavoro, in quanto le tre offerte di lavoro devono essere “congrue”, ai sensi dell’art. 25, d.lgs. n. 150/2015, nonché ai sensi del comma 9 dell’art. 4. Per quanto riguarda quest’ultima norma, non c’è problema, perché è chiara nell’individuare la distanza massima del posto di lavoro offerto; invece, per quanto riguarda i requisiti di congruità previsti dall’art. 25, evidentemente pensati per altri fini, essi restringono ancor di più la tipologia di offerta che è tenuto ad accettare il beneficiario, in quanto si deve trattare di un lavoro «coerente con le esigenze e le competenze maturate». Ma ciò che lascia maggiormente perplessi sono le altre due caratteristiche della “congruità” dell’offerta: si deve trattare di un rapporto a tempo pieno o con un orario non inferiore all’80% di quello dell’ultimo contratto di lavoro e comunque con un trattamento economico superiore di almeno il 10% rispetto al beneficio massimo fruibile. Parità di trattamento, ed equità, con chi è costretto a lavorare per guadagnare la stessa somma del reddito di cittadinanza, avrebbe [continua ..]