L’articolo passa in rassegna i principali problemi aperti dalla sentenza della Corte cost. n. 194/2018; si è criticata la assimilazione integrale operata dalla Consulta dell’indennità prevista per il licenziamento ingiustificato con il risarcimento in senso proprio; si è dubitato dell’altro assunto della sentenza secondo cui sarebbe costituzionalmente obbligata la discrezionalità del giudice al fine del risarcimento adeguato del danno; si ė evidenziata l’incertezza in ordine alla mancata indicazioni dei criteri per la determinazione dell’indennità nel dispositivo della sentenza, alla quale può ovviare solo parzialmente il riferimento contenuto nella motivazione agli artt. 8, legge n. 604/1966 e 18, comma 5, Stat. lav.; questa incertezza si riflette anche sulla difficoltà del controllo in cassazione in ordine alla scelta e alla gerarchia dei criteri per la determinazione dell’indennità operata dal giudice di merito; si sono pertanto avanzate proposte per un intervento del legislatore che colmi le suddette lacune, privilegiando il criterio dell’anzianità quantomeno per l’attribuzione delle soglie più alte.
* Il presente saggio è destinato agli Studi in onore del Prof. Roberto Pessi.
This article examines the main problems raised by the judgment n. 194/2018 of the Italian Constitutional Court; the full assimilation, made by the Committee, between the compensation for unjustified dismissal and the standard compensation for damages (as such), has been criticized; there are also doubts about the assumption of the judgment, according to which the discretion of the Employment Tribunal, in order to determine an adequate compensation for damages, would be guaranteed by the Italian Constitution; furthermore, this work highlights the uncertainty generated by the judgment, because of the absence of any criteria for determining the compensation, only partially avoided by art. 8 of Italian Law n. 604/1966 and art. 18, par. 5, of Italian Law n. 300/1970; such uncertainty causes also difficulties on the control that the Italian Supreme Court of Cassation is supposed to carry out on the choices, made by the judges of merit, on the hierarchy of criteria for determining the compensation; therefore, this article brings forward proposals, for the Italian Government, to fill the above-mentioned gaps, by favoring the criteria of length of service, at least for the assignment of the highest thresholds.
Keywords: Dismissal – employees’rising protection – Jobs Act – Constitutional Court – quantification and criteria for calculating the compensation for unjustified dismissal – art. 3 of Legislative Decree n. 23/2015 – insufficient protection – limitation of Judges’discretion.
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1. La nuova norma e la legittimità costituzionale della soglia minima dell’indennità - 2. La specialità dell’indennità rispetto al risarcimento del danno in senso proprio, ignorata dalla Corte - 3. È costituzionalmente obbligata la discrezionalità del giudice ai fini della determinazione del risarcimento “adeguato”? - 4. La scomparsa dei criteri per la determinazione dell’indennità nel dispositivo della sentenza - 5. L’incertezza sulla gerarchia, sulla “pesatura” e sul concorso dei singoli criteri ricavabili in via interpretativa e la rilevanza dell’anzianità - 6. L’onere della prova, la motivazione e la censurabilità in Cassazione - 7. La certezza del diritto dimenticata dalla Corte, il diritto “liquido” e il ritorno al potenziamento del ruolo giudiziario - 8. La dissuasione da incertezza del diritto: ovvero troppa certezza nuocerebbe alla deterrenza - 9. La necessità di un nuovo intervento del legislatore - NOTE
La sentenza della Corte cost. n. 194/2018 apre indubbiamente una serie di problemi di notevole complessità, che nascono a cominciare dal suo dispositivo nel quale, con una sorta di operazione chirurgica, la Corte ha creato una norma “monca”, o un moncone di norma, che ora così recita: «… il Giudice … condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità … in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità». In tal senso è chiaro il dispositivo della sentenza in cui si dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015, «limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”». La Corte ha dunque ritenuto incostituzionale il meccanismo di predeterminazione degli incrementi di due mensilità di retribuzione agganciati a ogni anno di anzianità, ai fini del calcolo dell’indennità in questione. Anche se formalmente la sentenza può rientrare nella tipologia di quelle di accoglimento parziale poiché colpisce una parte della disposizione scritta nel testo, nella sostanza essa è accentuatamente manipolativa in quanto la norma che residua dalla dichiarazione di incostituzionalità è molto diversa dalla sua versione originaria, come si vedrà. Per meglio comprendere l’esatta portata della sentenza occorre innanzitutto precisare che la Corte ha ritenuto costituzionalmente legittime le soglie più basse dell’indennità, a cominciare da quella minima, rigettando quindi la questione della esiguità della indennità medesima [1]. Anzi, tale questione, secondo la Corte, non sarebbe stata neppure “al cuore della doglianza” dell’ordinanza di rimessione. Nei commenti a tale ordinanza [2], si è invece discusso più che altro proprio delle soglie più basse dell’indennità, ravvisando in questo aspetto il principale dubbio di costituzionalità sollevato dal giudice rimettente, giacché il Tribunale di Roma ha accusato il legislatore di aver fissato tali soglie in misura “irrisoria”, “evanescente”, “inadeguata”, “modesta” [3]. Tanto [continua ..]
Fatta salva la soglia minima, la dichiarazione di incostituzionalità ha riguardato dunque il meccanismo di predeterminazione rigida dell’indennità di importo di due mensilità per ogni anno di servizio, in quanto essa, come si esprime la Corte, non lascia alcuno spazio alla «prudente discrezionalità valutativa del giudice». L’argomento principale utilizzato dalla Corte per censurare tale criterio di calcolo è la sua contrarietà ad un principio, a suo avviso ricavabile dalla Costituzione, secondo cui, affinché il risarcimento del danno sia adeguato, anche se non integrale, è imprescindibile che il legislatore lasci sempre uno spazio di discrezionalità al giudice. Questa impostazione suscita due ordini di perplessità. In primo luogo, appare una forzatura l’integrale l’automatica applicazione all’indennità in questione di (asseriti: cfr. par. 3) principi generali relativi al risarcimento del danno in senso proprio; una simile equiparazione avrebbe richiesto quantomeno un’argomentazione a supporto sul piano sistematico. Infatti la sentenza non ha tenuto conto della peculiarità di tale indennità, così espressamente qualificata dal legislatore senza alcun riferimento al risarcimento del danno, a differenza invece di quanto previsto dall’art. 8, legge n. 604/1966 e dell’art. 18, comma 5, Stat. lav., che invece menzionano espressamente il carattere risarcitorio dell’indennità medesima [8]. Sicché, dovendosi presumere che non si tratti di una dimenticanza da parte del legislatore, l’interprete che vuole rimanere fedele al testo normativo, ne dovrebbe trarre le conseguenze in base al canone dell’ubi voluit dixiti, ubi noluit tacuit, o quantomeno dovrebbe porsi il dubbio, invece di ragionare come se al posto del termine “indennità” fosse scritto “risarcimento”. Eppure nell’ambito della dottrina civilistica questi due termini non sono affatto considerati come sinonimi, né il primo viene ritenuto una variante semantica del secondo, poiché l’espressione “indennità” nel linguaggio del legislatore e in quello della dogmatica ricorre, nel diritto civile, con riguardo a certe forme di compensazione del pregiudizio distinte da quella tipica del risarcimento in senso proprio [9]. Al [continua ..]
Altro motivo di perplessità riguarda l’affermata esistenza di una discrezionalità del giudice costituzionalmente obbligata in materia di risarcimento del danno e quindi anche per i danni da licenziamento illegittimo. Qui, infatti, la Corte non si è limitata a ribadire, conformemente ai suoi precedenti, che anche i criteri previsti dal legislatore per il risarcimento del danno sono ovviamente sempre soggetti al controllo di adeguatezza da parte della Consulta; in questa sentenza la Corte si è spinta oltre affermando che al legislatore non è consentito di individuare criteri per il risarcimento del danno da licenziamento illegittimo chenon lascino spazio alla discrezionalità del giudice. Si tratta di una statuizione non condivisibile, e comunque molto impegnativa sul piano sistematico, che avrebbe richiesto un maggior supporto argomentativo. Desta subìto un certo effetto l’argomentazione della Corte secondo cui l’automatismo sanzionatorio violerebbe il principio di uguaglianza, se si pensa che per 42 anni nessuno ha sollevato mai una siffatta censura di incostituzionalità a fronte dell’automatismo sanzionatorio dell’art. 18 Stat. lav., versione originaria, che non lasciava al giudice alcuna discrezionalità in ordine appunto alla sanzione, trovando sempre applicazione quella massima, con il risarcimento pari a tutte le retribuzioni perse dal licenziamento alla reintegrazione, oltre alla reintegrazione stessa nel posto di lavoro; venivano così iniquamente poste sullo stesso piano situazioni tra loro anche molto differenti, come, ad esempio, il più odioso licenziamento discriminatorio, con quello sostanzialmente giustificato, per esempio da un reato commesso dal dipendente, ma illegittimo per un banale vizio procedimentale o formale, senza alcuna possibilità per il giudice di graduare tali conseguenze a seconda della gravità dell’illegittimità [14]. Andando poi al merito della questione, è da rilevare che gli stessi precedenti della Consulta citati dalla sentenza non sembrano esprimere un suddetto principio, limitandosi a ribadire che neppure la regola di integrale riparazione del danno ha copertura costituzionale [15], in quanto, se appartiene all’essenza del risarcimento di rimettere il patrimonio leso allo stato quo ante, ben può l’ordinamento giuridico in [continua ..]
Altro interrogativo di non poco conto che solleva la norma “monca” creata dalla Corte Costituzionale è se essa sia veramente tale, e cioè se l’intervento del giudice delle leggi sia stato solo soppressivo o invece se possa considerarsi anche additivo; in questa seconda ipotesi si pone il problema di stabilire quale sia questa nuova norma. Tale questione è fondamentale perché dalla sua soluzione dipende se il giudice sia vincolato o no a criteri predeterminati nel decidere il numero delle mensilità a titolo di indennità nell’ambito della amplissima forbice che va da 6 a 36 mensilità di retribuzione. Al riguardo il legittimo dubbio sorge in quanto nella norma che risulta dal dispositivo tali criteri non compaiono, poiché la manipolazione della Corte ha espunto dalla precedente disposizione l’unico criterio moltiplicatore (l’anzianità) e il moltiplicando (le due mensilità di retribuzione), senza essere però additiva di altri criteri. A rendere più singolare la questione vi è la constatazione che la Corte nella motivazione fa riferimento sia ai criteri previsti dall’art. 8, legge n. 604/1966, sia a quelli di cui al comma 5 dell’art. 18 Stat. lav., ma poi essi non compaiono più nel dispositivo che è invece la sede deputata ad esprimere il nuovo enunciato normativo. Poiché non si può pensare che, a questi livelli, si sia trattato di una dimenticanza, la conclusione è che l’omissione sia stata voluta da parte della Corte. La ragione di questa scelta potrebbe essere duplice: o una remora nei confronti del carattere eccessivamente creativo che avrebbe assunto la sentenza; oppure l’intenzione di lasciare la massima discrezionalità al giudice nel determinare l’indennità tra il minimo o il massimo, senza vincolarlo a criteri normativamente predefiniti. Questa seconda opzione appare la più coerente con l’impostazione della motivazione in cui, come si è visto nel par. 3, si enfatizza la funzione indispensabile del giudice nell’individuare l’adeguatezza del risarcimento del danno [26]. E comunque questa seconda opzione costituisce, purtroppo, l’effetto concreto che scaturisce dalla nuova norma risultante dal dispositivo della sentenza stessa. Infatti i tentativi di “appiccicare” al dispositivo ulteriori [continua ..]
I problemi sollevati dalla sentenza in esame non si esauriscono certo anche ove si ritenga ammissibile integrare il dispositivo di una sentenza della Corte Costituzionale, e quindi della nuova norma che esso esprime, con alcune affermazioni contenute nella motivazione, in particolare qui con i criteri dei richiamati artt. 8, legge n. 604/1966 o 18, comma 5, Stat. lav.; oppure, ove si reputi che la Cassazione sia legittimata, nell’esercizio della sua funzione di nomofilachia, ad integrare, in via interpretativa (anche costituzionalmente orientata?) la norma “monca” risultante dal dispositivo, individuando alcuni criteri a cui il giudice deve attenersi per la determinazione dell’indennità, facendo riferimento a quelli ricavabili dalla sentenza stessa. Rimangono infatti alcune incertezze di non poco conto, sia in ordine alla “pesatura” da attribuire ai singoli criteri, sia sulla eventuale gerarchia tra di essi. È pur vero che, in teoria, non si tratta di questioni nuove in quanto esse si pongono anche in riferimento all’art. 8 della legge n. 604/1966, sia pure solo per la soglia alle sei mensilità, e al comma 5 dell’art. 18 Stat. lav.; tuttavia tali interrogativi assumo ora ben altra rilevanza dal punto di vista applicativo in ragione della differenza quantitativa, poiché la nuova indennità mette a disposizione del giudice una forbice di trenta mensilità da assegnare discrezionalmente a differenza delle 12 del comma 5 e delle tre e mezzo della legge n. 604/1966. Né si possono trascurare le differenze con tali norme anche per quanto concerne la rilevanza dei singoli criteri. Infatti, il comma 5 sembra assegnare maggiore rilievo all’anzianità prevedendo che la determinazione dell’indennità tra un minimo e un massimo avvenga “in relazione all’anzianità di servizio”, mentre il giudice deve solo “tenere conto” degli altri criteri, a differenza di quanto dispone l’art. 8 in riferimento alla fascia da 2,5 a 6 mensilità che invece pone i criteri tutti sullo stesso piano (“avuto riguardo”). Ancor più marcata è la differenza di tecnica legislativa rispetto alle soglie più alte dell’art. 8, giacché, per accedere ad esse (fino a 10 o fino a 14 mensilità) giustamente vengono stabiliti due criteri rigidi e predeterminati dati [continua ..]
Sul piano processuale viene in rilievo l’aspetto della distribuzione dell’onere dell’allegazione e della prova dei criteri per la determinazione dell’indennità. Si tratta, dal lato del lavoratore, di fatti costitutivi del suo diritto ad una certa misura dell’indennità, che probabilmente verrà domandata in giudizio sempre nella misura massima; dal lato del datore, di fatti estintivi diretti ad abbassare il numero delle mensilità fino alla soglia minima, che, come si è visto, rimane tutt’ora valida, perché fatta salva dalla Corte e quindi come tale liquidabile. Sicché, in base ai princìpigenerali dovrebbe essere onere del lavoratore provare quelli che la incrementano e onere del datore, all’inverso, provare quelli che l’abbassano [40]. Ma la giurisprudenza in materia di vicinanza delle fonti della prova, che si è affermata in relazione al numero di dipendenti per l’applicazione dei differenti regimi di tutela del licenziamento, fa pensare che anche qui venga addossato sul datore l’onere della prova dei dipendenti e delle dimensioni dell’attività. Pertanto sul lavoratore graverà sicuramente l’onere dell’allegazione e della prova delle sue condizioni personali, tra le quali spiccherà quella della eventuale disoccupazione, così come sarà suo onere allegare e provare la diffusa disoccupazione nel mercato del lavoro locale della sua qualifica, secondo il criterio, stranamente ignorato dalla Corte Costituzionale, previsto dall’art. 30, comma 3, legge n. 183/2010, relativo alla “situazione del mercato del lavoro locale”. Il giudice deve comunque motivare la decisione in riferimento ai criteri prescelti o alla diversa “pesatura” tra di loro, sia in relazione al numero di mensilità da assegnare a ciascun criterio, in aumento o in detrazione. Se si adotta il comma 5 dell’art. 18, che espressamente prevede «l’onere di specifica motivazione» dei criteri, l’omissione di tale motivazione configura errore di diritto censurabile in Cassazione ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., e ciò anche qualora la motivazione non dovesse essere “specifica” in quanto si tratta di violazione di un requisito di legge. Tuttavia, sui requisiti della specificità della [continua ..]
La sentenza della Corte n. 194/2018 lascia dunque dietro di se una scia di notevoli incertezze, al contrario della tecnica adottata per le tutele crescenti [45], che aveva proprio la finalità di scongiurare tutti i profili di incertezza sopra evidenziati, che ora si ripropongono in misura anche più accentuata di prima poiché la forbice e le soglie massime dell’indennità sono molto maggiori rispetto al comma 5 dell’art. 18 e dell’art. 8, legge n. 604/1966. In questa materia non bisogna dimenticare che l’esigenza di avere maggiore certezza riguardo alla sanzione del licenziamento ingiustificato è un opportuno bilanciamento rispetto alla congenita incertezza che caratterizza da sempre le regole di giustificazione a precetto generico previste dall’art. 3, legge n. 604/1966 e dall’art. 2119 c.c. In sostanza, sul punto, alla sentenza può essere mossa la medesima critica che essa stessa formula nei confronti del giudice rimettente, nella parte della motivazione in cui rigetta la questione di incostituzionalità riguardante la sfera temporale di applicazione dei diversi regimi sanzionatori, ritenendo, giustamente, che fosse stata «del tutto trascurata dal giudice rimettente» la “ragione giustificatrice” delle tutele crescenti di perseguire lo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione anche attraverso la “predeterminazione” delle conseguenze del licenziamento illegittimo; qui la Corte afferma espressamente che questo mezzo per raggiungere l’obiettivo «non contrasta con il “canone di ragionevolezza”». Si tratta della stessa “ragionevolezza” che però la Corte accantona quando poi dovrebbe passare ad effettuare il bilanciamento di valori e interessi del medesimo meccanismo di predeterminazione dell’indennità, rispetto all’adeguatezza del ristoro del lavoratore. Eppure una precedente importante sentenza della Consulta, nel rigettare le questioni relative all’indennità per il termine illegittimo, introdotta dall’art. 32, commi 5-7, legge n. 183/2010, aveva fondato la sua motivazione proprio sulla preminenza del «bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi» [46]. Non è dato sapere se questa sentenza [continua ..]
Altro motivo di incostituzionalità del meccanismo di predeterminazione dell’indennità è stato visto nella scarsa efficacia di deterrente dell’aumento dell’indennità basato sulla sola crescita dell’anzianità, giacché, secondo la Corte, tale meccanismo «è suscettibile di minare in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro». La Corte, reputando «di tutta evidenza» la mancanza della funzione dissuasiva, ha ritenuto di non motivare questo suo convincimento, limitandosi ad affermare apoditticamente che tale meccanismo non allontanerebbe sufficientemente il datore di lavoro «dall’intento di licenziare senza valida giustificazione». L’implicazione logica ed oggettiva di questa affermazione, anche se non espressa e forse neppure voluta, è che la funzione dissuasiva della sanzione, nei confronti del datore di lavoro che intende licenziare in modo ingiustificato, viene meno non per la modesta entità delle soglie minime ma piuttosto perché la sanzione medesima era “troppo certa”. Nell’ordinanza di rimessione tale funzione era invece collegata alla inadeguatezza delle soglie più basse. Senonché, come si è visto, la Corte ha fatto salva la soglia minima, non ritenendola esigua. Per la Corte, invece, è l’inadeguatezza dell’indennità incrementabile in misura rigida con la sola anzianità che, tra l’altro, è suscettibile di “minare la funzione dissuasiva” della sanzione nei confronti del datore cheintende licenziare in modo ingiustificato in quanto non lascia alcuno spazio “alla prudente discrezionalità del giudice”. Ragionando dunque a contrario, l’indennità riacquista la funzione dissuasiva, secondo la logica della Corte, allorquando viene lasciata la discrezionalità al giudice di decidere, senza rigidi automatismi, la determinazione all’indennità, tra un minimo di sei e un massimo di trentasei mensilità. Indubbiamente questo meccanismo, foriero di accentuata incertezza, è più efficace rispetto al precedente al fine di ingenerare timore nel datore circa le conseguenze del licenziamento. In questa logica, perché allora, non abolire del tutto anche le soglie minime e [continua ..]
Il quadro di preoccupante incertezza che emerge dalle considerazioni che precedono deve far riflettere sui possibili rimedi, che non possono essere affidati soltanto alla buona volontà di alcuni giudici del lavoro che magari tentano di autoregolarsi dandosi delle linee guida; anche la funzione di nomofilachia della Cassazione più di tanto non può incidere nel restaurare un livello apprezzabile di certezza, in quanto, anche ove la Suprema Corte individuasse con precisione i criteri per la determinazione dell’indennità, il giudice resterebbe comunque libero in ordine al loro apprezzamento in termini di mensilità. Infatti, come si è detto, il vero problema è il notevole margine entro il quale può spaziare la discrezionalità del giudice, in riferimento sia alla “forbice”, di ben trenta mensilità, sia alle soglie più alte dell’indennità, fino a trentasei mensilità, che fanno di questa nuova identità uscita dalla sentenza della Consulta, un vero e proprio “unicum”. Anche a livello europeo la misura dell’indennità è sensibilmente inferiore nella maggior parte degli altri Paesi ai quali si applicano la Carte di Nizza e la Carta sociale Europea; ad esempio, in Germania è di 18 mensilità, di 6 mensilità più il costo della convention de conversion (mediamente 12 mensilità) in Francia, dove la Corte Costituzionale ha ritenuto ragionevole e non contrastante con il principio di uguaglianza la disposizione che collega i limiti minimo e massimo dell’indennizzo per il licenziamento ingiustificato all’anzianità del lavoratore; di circa due mensilità per anno di servizio in Spagna e Olanda [58]. Un “unicum” destinato ad essere una mina vagante in ogni giudizio sulla legittimità del licenziamento. Sicché è da augurare un tempestivo intervento del legislatore, anche con decretazione d’urgenza, come è avvenuto con il decreto c.d. “dignità”, che faccia un minimo di chiarezza andando a completare il “moncone” di norma creato dalla Corte, soprattutto in relazione alle soglie più alte, superiori alle 24 mensilità. È essenzialmente in quella fascia infatti che la nuova norma oggettivamente finisce per alterare il bilanciamento che aveva inteso effettuare [continua ..]