Corte Costituzionale, 17 maggio 2019, n. 121 – Pres. Lattanzi-Rel. Sciarra
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Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, d.lgs. 11 agosto 1993, n. 375, come sostituito dall’art. 9 ter, comma 3, quinto periodo, del decreto legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, nella legge 28 novembre 1996, n. 608, per contrasto con gli artt. 3, 38, 76 e 77 Cost. atteso che l’accertamento previdenziale previsto da tale disposizione ha riguardo al fabbisogno di giornate lavorative di ciascuna singola specifica azienda agricola, considerata nella sua peculiare struttura e nell’organizzazione che la caratterizza.
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Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale è stata chiamata a risolvere le questioni di costituzionalità sollevate dalla Corte d’Appello di Roma [1], che ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, d.lgs. 11 agosto 1993, n. 375 (Attuazione dell’art. 3, comma 1, lett. aa), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente razionalizzazione dei sistemi di accertamento dei lavoratori dell’agricoltura e dei relativi contributi), come sostituito dall’art. 9 ter, comma 3, quinto periodo, decreto legge 1° ottobre 1996, n. 510 (Disposizioni urgenti in materia di lavori socialmente utili, di interventi a sostegno del reddito e nel settore previdenziale), convertito, con modificazioni, nella legge 28 novembre 1996, n. 608, per contrasto con gli artt. 3, 38, 76 e 77 Cost. Nella sentenza in commento, la Corte, ha preso le mosse da una sintetica ma efficace ricostruzione della disciplina in materia di contribuzione agricola, essendo il Giudice a quo stato investito dell’appello avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda di accertamento negativo proposta dal titolare di un’impresa agricola, in seguito alla notificazione di un verbale di accertamento con il quale l’INPS, ai sensi del denunciato art. 8, comma 3, d.lgs. n. 375/1993, aveva proceduto all’imposizione dell’onere contributivo equivalente al maggior numero di giornate lavorative, rispetto a quelle risultanti dalle dichiarazioni trimestrali della manodopera occupata, corrispondenti al fabbisogno di occupazione dell’impresa determinato sulla base della stima tecnica di cui al comma 2 dello stesso art. 8.
L’iter ricostruttivo contenuto nella sentenza in commento parte dalle previsioni della legge di delega per il riordino del sistema previdenziale dei lavoratori dipendenti privati e pubblici conferita al Governo dall’art. 3, della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), nella quale era previsto, quale principio e criterio direttivo la «razionalizzazione dei sistemi di accertamento dei lavoratori dell’agricoltura e di accertamento e riscossione dei contributi, tenuto conto della disciplina vigente per la generalità dei lavoratori e dei principi contenuti nella legge 9 marzo 1989, n. 88, al fine di una migliore efficienza del servizio e del rafforzamento delle misure contro le evasioni e le elusioni». È in attuazione di tale delega che fu adottato il decreto in cui è contenuta la norma al vaglio della Corte con la sentenza in commento, il d.lgs. n. 375/1993, il cui art. 8 stabilisce, al comma 2, che per potere operare un raffronto tra i dati aziendali accertati e gli elementi relativi alla manodopera occupata acquisiti sulla base delle risultanze del collocamento, gli uffici procedono a una «stima tecnica a mezzo visita ispettiva», mediante la quale «determinano il numero delle giornate di lavoro occorrenti in relazione all’ordinamento colturale dei terreni, al bestiame allevato, ai sistemi di lavorazione praticati da ciascuna azienda, ai periodi di esecuzione dei lavori, nonché alle consuetudini locali» [2]; quindi, ai sensi del comma 5 del medesimo articolo, il «provvedimento motivato conseguente all’accertamento di cui al comma 2 è notificato al datore di lavoro interessato». Il comma 3 dell’art. 8 regola quindi l’utilizzabilità da parte dell’INPS degli esiti della stima tecnica appena descritta, ai fini dell’accertamento dei contributi dovuti dal datore di lavoro agricolo. Mentre il testo originario di tale previsione stabiliva che «[i]l numero delle giornate di manodopera, accertato ai sensi del comma 2, rileva anche per l’imposizione induttiva dei contributi, da liquidare sulla base delle retribuzioni medie di cui all’art. 28 del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile [continua ..]
Il Giudice a quo, nel censurare la circostanza che l’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 375/1999 «prevede la possibilità di addebitare contribuzione per lavoratori che non siano stati preventivamente individuati nominativamente e personalmente», assume che la stessa «nella parte in cui impone all’INPS di richiedere alle imprese agricole contributi previdenziali non collegati a soggetti nominativamente individuati bensì sulla base di un fabbisogno presuntivo determinato in forza di una stima tecnica», violi anzitutto gli artt. 76 e 77 Cost., ponendosi in contrasto con il prima richiamato principio e criterio direttivo di cui all’art. 3, comma 1, lett. aa), della legge di delegazione n. 421/1992 [6]. Secondo la Corte d’Appello di Roma, inoltre, esso violerebbe gli artt. 3 e 38 Cost., per due ordini di ragioni. In primo luogo viene rilevato dal remittente che il criterio “presuntivo” dettato da tale norma finirebbe con «imporre pesi disuguali a soggetti che si trovano in condizioni di parità o pesi uguali a soggetti che non sono in uguali condizioni». In secondo luogo si deduce che la previsione censurata convertirebbe l’obbligazione contributiva in un’ulteriore sanzione rispetto a quelle già previste dall’ordinamento.
Dopo avere agevolmente superato l’eccezione di inammissibilità della questione sollevata dal Presidente del Consiglio dei Ministri [7], la Corte esamina singolarmente le censure di illegittimità sollevate dal giudice a quo e, nel fare ciò, ha gioco facile nel rigettare quella che la Corte d’Appello di Roma ha sollevato, forse per una frettolosa lettura delle previsioni in esame, in relazione agli artt. 76 e 77 Cost, giacché il testo censurato (attualmente in vigore) non è quello adottato in attuazione della delega conferita con la legge n. 421/1992, ma quello (interamente) sostituito dall’art. 9 ter, comma 3, quinto periodo, del d.l. n. 510/1996, nell’ambito del quale il legislatore non era in alcun modo tenuto a rispettare i principi ed i criteri direttivi contenuti nella legge di delega del 1992. Altrettanto agevole è la declaratoria di rigetto della questione sollevata in relazione all’art. 38 Cost. (profilo di censura rispetto al quale, in effetti, l’ordinanza di rimessione appare alquanto lacunosa). Adottando una prospettiva che indirizza il regime protettivo oggetto di tale norma verso i soli lavoratori, la Corte assume che sia compatibile con la citata previsione una disciplina che, imponendo a carico del datore di lavoro la maggiorazione contributiva correlata alla stima tecnica di cui all’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 375/1993, determina un «incremento dell’apporto finanziario al sistema previdenziale», «rafforzando la copertura che gli enti previdenziali possono assicurare» ai lavoratori agricoli.
La Corte passa quindi ad esaminare le (invero più articolate) censure sollevate dal giudice a quo in relazione all’art. 3 Cost. Nel fare ciò la stessa è consapevole di doversi confrontare con le statuizioni della sentenza n. 65/1962 [8]. Tale decisione ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega, degli artt. 4 e 5, r.g. 24 settembre 1940, n. 1949, in quanto stabilivano la contribuzione agricola in base al criterio presuntivo cosiddetto dell’ettaro-coltura anziché sulla base dell’impiego di manodopera «per ogni singola azienda agricola», nonché, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 5, d.lgs. 23 gennaio 1948, n. 59, nella parte in cui consentiva di lasciare sussistere il predetto sistema dell’accertamento presuntivo, con il «risultato di imporre pesi disuguali a soggetti che si trovavano in condizioni di parità o pesi uguali a soggetti che non erano in uguali condizioni». In particolare, nel decreto n. 1949/ 1940, la determinazione dell’onere contributivo era basato sul “presunto impiego” di mano d’opera, fissato dalla Commissione provinciale per tutta la Provincia o per zone della Provincia stessa, sulla base del numero delle giornate di lavoro occorrenti annualmente su un ettaro di terreno. Ciò che la Corte aveva ritenuto non conforme a Costituzione era proprio la circostanza che «stabilita la zona, che può anche corrispondere a tutto il territorio della Provincia, e stabiliti i criteri valevoli per i vari tipi di coltura nella zona stessa, ogni altra più peculiare caratteristica delle singole aziende diventa irrilevante», con conseguente rischio di «imporre pesi disuguali a soggetti che si trovavano in condizioni di parità o pesi uguali a soggetti che non erano in uguali condizioni»; ciò, peraltro, in palese violazione del principio direttivo contenuto nel r.d.l. 28 novembre 1938, n. 2138, convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 739, che, nel conferire la delega, aveva specificato che i contributi dovessero essere determinati sulla base dell’impiego di mano d’opera “per ogni azienda”, imponendo quindi l’adozione di un criterio, anche eventualmente presuntivo, ma «suscettibile di applicazione non rispetto alle zone, ma rispetto [continua ..]
La Corte, al contempo, non condivide l’assunto del giudice a quo per cui il regime in esame determinerebbe la conversione dell’obbligazione contributiva in un’ulteriore sanzione rispetto a quelle già previste dall’ordinamento. Nel fare ciò, la stessa fa proprio l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che assume non rilevante, nel rapporto contributivo tra datore di lavoro agricolo e l’INPS l’imputazione soggettiva dei contributi previdenziali [9]. Tale affermazione è stata motivata dalla Corte di Cassazione nel presupposto del superamento della tesi della natura trilaterale del rapporto giuridico previdenziale, venendo invece individuati tre rapporti bilaterali: quello tra datore di lavoro ed ente previdenziale per la provvista finanziaria attraverso i contributi; quello tra il lavoratore ed ente previdenziale per le prestazioni; quello del lavoratore con il datore di lavoro, stante l’interesse del primo all’adempimento dell’obbligazione contributiva [10]. Tale superamento è stato fondato sulla necessaria distinzione del rapporto assicurativo, che ha esclusiva fonte nella legge, dal rapporto di lavoro, che ha fonte in un atto negoziale o in un provvedimento amministrativo, e la conseguente natura soltanto incidentale degli accertamenti relativi al secondo [11]. In forza di tale principio la Corte di Cassazione ha quindi escluso che le vicende di un singolo rapporto bilaterale si ripercuotano sempre automaticamente sugli altri e, cioè, in particolare, che l’adempimento tecnico amministrativo di imputazione dei contributi in favore dei lavoratori (nei confronti di lavoratori non individuati, ma individuabili) possa incidere sull’esistenza dell’obbligazione datoriale che sta a monte, ritenendo tale conclusione confortata anche da evidenti ragioni logico – sistematiche, a carattere costituzionale (artt. 3 e 38 Cost.), apparendo invero del tutto irrazionale «un sistema che riconoscesse al datore di lavoro di potersi sottrarre all’assolvimento dei contributi dovuti solo sostenendo di non conoscere il nominativo dei lavoratori che ha utilizzato, per contro lasciando privo di tutela previdenziale i lavoratori effettivamente impiegati all’interno dell’impresa (...), favorendo così nei fatti le forme più retrive di [continua ..]