L’articolo affronta la tematica della prescrizione dei crediti retributivi alla luce delle recenti riforme normative ed orientamenti giurisprudenziali, segnalando la necessità di nuovo intervento legislativo in materia.
The article discusses the topic of remuneration credits’prescription in the light of recent regulatory reforms and judgements, highlighting the need for a new legislative intervention on the matter.
Keywords: Prescription – remuneration credits – effect.
1. Premessa - 2. Gli interventi della Corte Costituzionale e della giurisprudenza - 3. Il ridimensionamento della c.d. tutela reale - 4. Le posizioni di dottrina e giurisprudenza - 5. Conclusioni - NOTE
Le recenti pronunce giurisprudenziali [1] in tema di prescrizione dei crediti retributivi richiamano alla memoria le parole di autorevole dottrina, che individuava nell’istituto «uno dei capitoli di un nuovo diritto, in parte costruito, ma in parte da costruire» [2]. Ed invero, il mutato (e variegato) regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo – modificato, dapprima, dalla legge n. 92/2012 (c.d. legge Fornero) [3] e, ulteriormente, dal d.lgs. n. 23/2015 (attuativo del c.d. Jobs Act) [4] – ha fatto riemergere quei profili di incertezza che l’istituto sembrava aver definitivamente superato, grazie ad un chiaro assetto normativo che aveva favorito il consolidarsi di univoci orientamenti giurisprudenziali. Com’è noto, salvo alcune ipotesi residuali (rientranti nella tutela di diritto comune), fino a pochi anni fa la disciplina sanzionatoria in tema di licenziamenti era caratterizzata dal binomio stabilità obbligatoria/stabilità reale (rispettivamente, ex art. 8 della legge n. 604/1966 e art. 18 della legge n. 300/1970), essendo quest’ultima essenzialmente limitata alla aziende di medio/grandi dimensioni (oltre 15 dipendenti nella singola unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito dello stesso comune, ovvero oltre 60 dipendenti nell’intero complesso aziendale). La c.d. riforma Fornero prima, ed in maniera ancora più accentuata il d.lgs. n. 23/2015 poi, hanno posto termine alla automatica correlazione tra illegittimità del licenziamento (nelle aziende aventi i requisiti dimensionali previsti dall’art. 18 della legge n. 300/1970) e reintegrazione nel posto di lavoro (c.d. stabilità reale), avendo previsto diverse ipotesi di tutela meramente indennitaria (e, dunque, non necessariamente ripristinatoria del rapporto) anche laddove il datore di lavoro soddisfi i requisiti dimensionali di cui, appunto, al predetto art. 18. Tali modifiche legislative, oltre che sotto il profilo della permanenza del rapporto lavorativo, sono subito apparse destinate a produrre effetti anche in relazione ad istituti la cui regolamentazione è stata nel tempo ritenuta, da dottrina e giurisprudenza, strettamente dipendente dal requisito della stabilità (o meno) del rapporto di lavoro. Nello specifico, la nostra materia è stata costantemente [continua ..]
Com’è noto, la tematica della prescrizione ha acquisito particolare significatività a partire dalla metà degli anni ’60, allorquando la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c. «limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto» [6]. Il ragionamento della Consulta era fondato sulla ritenuta equivalenza tra rinunzia e inerzia del lavoratore [7], funzionale a tutelare la parte debole del rapporto che, in virtù di quel metus che tante volte verrà richiamato (rispetto alla libera recedibilità dal rapporto), sarebbe indotto a non esercitare i propri diritti, rinunciando di fatto agli stessi. La Corte, pur escludendo che il diritto di credito alle prestazioni salariali periodicamente dovute sia imprescrittibile e indisponibile, affermò che questo non è rinunciabile dal lavoratore, allo stesso modo del diritto al riposo settimanale e alle ferie (espressamente richiamati dall’art. 36 Cost.), e che il decorso della prescrizione in costanza di rapporto (che non sia «dotato di quella resistenza che caratterizza invece il rapporto di impiego pubblico il timore del recesso, cioè del licenziamento spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia ad una parte dei propri diritti») produrrebbe lo stesso effetto abdicativo di una rinuncia espressa [8]. Un percorso argomentativo, dunque, che prescinde dal concetto di “retribuzione sufficiente” per spiegare l’irrinunciabilità del diritto, riguardando la lettura della Corte qualsiasi credito, sebbene non riferito alla liberazione dal bisogno del lavoratore e della sua famiglia [9]. L’intervento della Consulta determinò una differenziazione tra la disciplina (della prescrizione) per il lavoro pubblico e per quello privato, riferendosi la pronuncia di incostituzionalità solo al secondo in quanto «non dotato di quella resistenza che caratterizza invece il rapporto d’impiego pubblico». Dunque, l’elemento di fondo della pronuncia era rappresentato dalla situazione psicologica del lavoratore privato, il quale, in un sistema caratterizzato dalla libera recedibilità, poteva essere indotto a non esercitare i propri diritti per timore di veder risolto [continua ..]
L’assetto interpretativo sopra richiamato ha cominciato ad evidenziare incertezze con l’entrata in vigore della legge n. 92/2012 e, ancor di più, del d.lgs. n. 23/2015, che hanno messo in discussione i principi su cui si erano fondate le precedenti pronunce giurisprudenziali. Il comune denominatore dei due provvedimenti legislativi risiede nella frammentazione dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti, con innegabile ridimensionamento della c.d. tutela reale. Com’è noto, infatti, nella “nuova” gradazione delle sanzioni prevista dall’art. 18, legge n. 300/1970, la reintegrazione nel posto di lavoro è limitata ai casi di licenziamento discriminatorio (al quale è assimilato quello ritorsivo [25]), di licenziamento nullo per previsione legislativa (ad esempio, per causa di matrimonio o in violazione delle disposizioni a tutela della genitorialità) o in quanto fondato su un motivo illecito determinante [26], di insussistenza del fatto (giuridico e/o materiale) posto alla base della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento (ovvero nell’ipotesi in cui la condotta sia punita dal contratto collettivo con una sanzione conservativa) [27] o, infine, di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo [28]. Peraltro, il d.lgs. n. 23/2015 ha ulteriormente “marginalizzato” la tutela reintegratoria, circoscrivendo la stessa alle sole ipotesi di licenziamento discriminatorio/ritorsivo, nullo per previsione legislativa [29] ovvero illegittimo per insussistenza del fatto materiale posto alla base del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento [30]. Naturalmente, il dubbio che è se le molteplici opzioni sanzionatorie e l’incertezza sulla possibilità di ottenere la reintegra in sede giudiziale possano conferire attualità alle considerazioni della Consulta del 1966. E ciò in quanto, a differenza del passato, la tipologia sanzionatoria non è dipendente, essenzialmente, dalla dimensione aziendale (conoscibile ex ante), bensì da elementi (le causali del licenziamento) che per definizione non sono attuali né conoscibili nel momento in cui il lavoratore deve decidere se agire o meno per la tutela dei propri interessi [31]. Lo stesso riferimento occupazionale, [continua ..]
Il dibattito sul tema è stato sin da subito vivace e si è incentrato essenzialmente su due profili: in primis sulla perdurante attualità del sistema delineato dalla citata sentenza della Corte cost. n. 63/1966 alla luce degli interventi normativi del triennio 2012-2015; in secundis sulla eventuale necessità di un ulteriore intervento della Corte Costituzionale o, più auspicabilmente, del legislatore, ad oggi attore sostanzialmente disinteressato [33]. Quanto al primo aspetto, è astrattamente condivisibile l’idea della «implicita capacità adattativa del principio enunciato dalla sentenza n. 63/66, rispetto ai possibili cambiamenti della disciplina sul licenziamento» [34]; in concreto, tuttavia, proprio alla luce delle molteplici soluzioni interpretative il rischio (già manifestatosi nelle recenti pronunce giurisprudenziali) è di orientamenti differenti (e a volte contrapposti) che evidenziano inaccettabili disparità di trattamento nell’ambito di fattispecie analoghe. Del resto, il dibattito dottrinario lasciava presagire tale situazione. Pur con differenti argomentazioni e sfumature, da un parte, si è sostenuto che l’attuale tutela reintegratoria (e certamente quella prevista dall’art. 18, legge n. 300/1970) sia ancora idonea a garantire un sufficiente grado di “resistenza”, ritenendo che «le modifiche all’art. 18 possano continuare a tutelare il lavoratore in modo tale da consentire la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro, poiché la tutela derivante dal nuovo art. 18 (…) è pur sempre idonea a consentire al lavoratore di esercitare i propri diritti, senza temere di essere licenziato» [35]. Tale timore non riaffiorerebbe neanche nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 23/2015, persistendo la possibilità per il lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere un ordine di reintegra da parte del giudice, pur se in un ventaglio di ipotesi ridotto rispetto al passato. Di contro, si è osservato che il novellato art. 18 conserva la tutela reale soltanto nei casi tassativi di ingiustificatezza qualificata, e che pertanto «non è più sostenibile il decorso della prescrizione dei crediti retributivi durante il rapporto, poiché non è più garantita la stabilità di [continua ..]
Appare paradossale che un istituto che ha come ratio la certezza del diritto manifesti così tante incertezze nella sua concreta applicazione. Peraltro, dato l’esistente contesto normativo, la materia non sembra destinata ad una soluzione che possa prescindere da un intervento del legislatore, auspicabile anche al fine di recuperare certezze al sistema. Non vi è dubbio che l’attuale contesto socio-economico è profondamente differente da quello esistente nel periodo in cui si è formata la giurisprudenza costituzionale in materia [42]. Analogamente, anche il complessivo statuto protettivo dell’epoca era piuttosto carente e certamente non comparabile con quello odierno (sia quanto alla regolamentazione del rapporto sia quanto alle tutele previdenziali) [43]. Tali circostanze inducono a domandarsi se, ancora oggi, sia effettivamente necessaria la c.d. tutela reale al fine di escludere il metusdel lavoratore, ovvero sia sufficiente un apparato sanzionatorio che, alle ipotesi di reintegrazione (limitate alle illegittimità “qualificate”), affianchi una adeguata tutela indennitaria. Si potrebbe ritenere – pur consapevoli che i principi affermati dalla Consulta e dalla giurisprudenza di merito e di legittimità possono condurre a soluzione diversa – che la tutela reale (quale unica sanzione possibile) non sia più necessitata (ai fini dell’immediato decorso della prescrizione). E ciò in quanto la tematica della prescrizione ruota intorno a due elementi: i crediti retributivi (ai quali si riferisce il particolare regime di decorso della prescrizione) ed il timore di subire il licenziamento (a causa della rivendicazione dei primi). Quanto ai crediti retributivi, risulta singolare che gli stessi abbiano una tutela rafforzata rispetto ad altri diritti, pure di rango costituzionale, per i quali il termine di prescrizione comincia a decorrere da subito (e per i quali dovrebbe riscontrarsi il medesimo metus). Con riferimento al timore di subire un licenziamento ritorsivo, invece occorre ricordare, per un verso, che lo stesso è comunque sanzionato con la reintegrazione nel posto di lavoro (tanto dall’art. 18, legge n. 300/1970 quanto dal d.lgs. n. 23/2015); per altro verso, che il progetto ritorsivo può essere attuato anche mediante provvedimenti diversi dal recesso, ma [continua ..]