Tribunale di Firenze 26 settembre 2019, n. 794
<La regola per cui il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, interpretata alla luce dei principi stabiliti nella direttiva comunitaria 99/70, implica che il contratto a tempo determinato costituisca una mera eccezione, ammissibile esclusivamente per soddisfare esigenze transitorie.
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1. Lavoro a termine acausale e limiti comunitari - 2. Lo stato della giurisprudenza comunitaria: legittimità di un sistema acausale incentrato sulla (adeguata) durata massima delle successioni di contratti - 3. Evoluzione in senso acausale della legislazione nazionale, dubbi di conformità comunitaria e potenziali rimedi - 4. Critica della sentenza in commento: infondatezza di una interpretazione conforme fondata sulla misura delle ragioni oggettive - 5. Segue: erronea interpretazione della disciplina dei contratti successivi per il settore della navigazione - 6. Segue: e sua irrilevanza rispetto alla disciplina generale applicabile al caso di specie - NOTE
Il concetto di acausalità riferito al lavoro a tempo determinato non indica, come è ovvio, l’assenza di una causa del contratto, bensì la facoltà di apporvi liberamente un termine senza la necessaria esistenza, nel caso concreto, di una situazione integrativa di ipotesi tipizzate dalla fonte legale (le c.d. causali introdotte a partire dalla legge n. 230/1962) e collettiva (le c.d. causali rimesse ai sindacati, in via generale con la delega in bianco della legge n. 56/1987), ovvero di una norma a precetto generico (la c.d. causale generale del d.lgs. n. 368/2001). Il ricorso alla tecnica della acausalità esprime, dunque, la rinuncia dell’ordinamento ad imporre, mediante un obbligo (o onere) di giustificazione sia pure diversamente declinato nel tempo, un limite interno alla scelta datoriale del tipo (o sotto-tipo) negoziale. Pertanto questa soluzione non corrisponde neppure alla tecnica già sperimentata per il trasporto aereo attraverso la c.d. “flessibilità pura”, che in effetti dipendeva, almeno in parte, da una presunzione di temporaneità delle esigenze del settore, collegata a periodi stagionali preventivamente individuati dal legislatore. In un sistema incentrato sul valore del tempo indeterminato come forma comune del rapporto di lavoro, la legittimità di un utilizzo acausale del lavoro a termine non può però fondarsi sul solo limite rappresentato dalle clausole di contingentamento, cioè attraverso il rispetto delle quote di flessibilità garantite sull’organico aziendale, perché la direttiva europea 99/70/CE impone di tutelare ogni singolo lavoratore contro una ingiusta precarizzazione. Ed a tale pericolo il solo limite percentuale non offre chiaramente rimedio, non impedendo il reiterato e perfino illimitato utilizzo dello strumento contrattuale in esame nei confronti di uno stesso dipendente. Come noto, per evitare questa precarizzazione la disciplina comunitaria chiede invece agli Stati membri di adottare, rispetto alle successioni di contratti a termine attivate col medesimo lavoratore, una misura di prevenzione degli abusi tra quelle espressamente previste dalla clausola 5, lett. a), b), c) (ragioni oggettive, durata massima o numero massimo dei rinnovi) dell’accordo allegato alla direttiva, o altre misure equivalenti. Tali tuttavia non sono, oltre [continua ..]
È altrettanto nota l’affermazione della Corte di Giustizia per cui le tre misure nominate nella clausola 5 dell’accordo quadro possono essere adottate disgiuntamente dai legislatori nazionali, trattandosi di misure (anche tra loro) alternative (“almeno una delle misure”) [4]. Questa scelta “minimalista” del giudice di Lussemburgo può essere criticata, ma non può essere travisata. Invero, è di evidenza empirica che la misura delle ragioni oggettive, una volta interpretata nel senso della loro temporaneità (qualunque sia l’ampiezza semantica attribuibile a tale criterio e ferma la astratta ripetibilità di tali ragioni nel tempo) costituisce un limite più penetrante all’utilizzo della tipologia negoziale rispetto alla misura della durata complessiva dei contratti [5], quando non estremamente circoscritta. Resta tuttavia che, salvo l’accertata inadeguatezza delle misura prescelta in relazione allo scopo perseguito, il legislatore interno è libero di adottare una soluzione più o meno restrittiva [6], in linea con il processo di armonizzazione degli ordinamenti nazionali tramite le sole prescrizioni minime. Se le misure antielusive della clausola 5 sono (o possono comunque essere) alternative, si deve ritenere che dalla sola misura della durata massima complessiva non è ricavabile un limite di segno causale, nel senso sopra chiarito, per l’apposizione del termine. Né si può desumere il contrario dal celebre 6° considerando premesso all’accordo quadro europeo, secondo cui «i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro». Ed invero, quella proposizione “normativa” non solo è concettualmente compatibile (almeno finché si ragiona, come fa la stessa direttiva, sulla precarizzazione del lavoratore piuttosto che della posizione di lavoro [7]) con la sola misura, in sé acausale, della durata massima complessiva, ma non può comunque essere declinata nel senso della necessaria sussistenza di ragioni temporanee giustificative del termine, sia perché in forza del successivo 7° considerando le ragioni oggettive sono soltanto “un modo di prevenire gli abusi”, sia perché quelle ragioni sono state comunque ritenute alternative [continua ..]
L’ordinamento italiano ha inizialmente recepito la disciplina europea con l’introduzione della ricordata norma a precetto generico, imponendo una giustificazione [10] per l’apposizione del termine ad ogni contratto stipulato con lo stesso lavoratore, a partire dal primo. Con la legge n. 247/2007 è stata aggiunta l’ulteriore misura antielusiva del limite di durata massima triennale della successione di contratti, così plausibilmente superandosi ogni dubbio di conformazione comunitaria connesso alla portata, estensiva o restrittiva, della clausola generale. Con la riforma del 2012 è stato invece avviato un processo di riduzione delle tutele, dapprima con esclusivo riferimento al primo contratto a termine di durata massima annuale [11], la cui stipulazione è stata consentita anche senza la giustificazione prescritta dalla norma generale, vale a dire mediante un regime acausale all’epoca alternativo a quello causale. Il decreto legge n. 34/2014, poi confermato dal d.lgs. n. 81/2015, addirittura generalizzava l’applicazione del sistema acausale, incentrando la tutela contro l’ingiusta precarizzazione soltanto nella misura antielusiva della durata massima triennale delle successioni. Col decreto legge n. 87/2018 è stato infine ripristinato un sistema misto, in cui al primo contratto acausale, sempre di durata massima annuale, fa riscontro una disciplina causale (peraltro più rigida del passato) sia dei rinnovi, sia delle proroghe che determinino il superamento della durata annuale del primo contratto, mentre il limite legale di durata complessiva è stato ridotto a 24 mesi. Per quanto ondivaga, l’evoluzione normativa dell’ordinamento conferma che il legislatore interno, mediante una attuazione diversificata delle misure di prevenzione degli abusi di volta in volta finalizzata a differenti obiettivi economici ed occupazionali, si è comunque mosso nell’ambito delle indicazioni giudiziali sovranazionali. Il che vale anche per il regime integralmente acausale vigente dalla riforma del 2014 fino alla parziale “controriforma” del 2018. In questo contesto, pure l’introduzione nel sistema interno di una proposizione normativa corrispondente (nelle sue varianti temporali dal 2007 al 2015) al 6° considerando dell’accordo europeo si dispiegava alla stregua [continua ..]
Al contrario, con la sentenza in commento il Tribunale di Firenze sostiene che la disposizione di esordio del d.lgs. n. 368/2001 (nella versione del 2012) e quella corrispondente riprodotta nell’art. 1, d.lgs. n. 81/2015 – secondo cui il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato «costituisce la forma comune di rapporto di lavoro» – devono essere interpretate nel senso che il contratto a tempo determinato «costituisca invece un’eccezione, ammissibile esclusivamente per soddisfare esigenze transitorie e in quanto tali non soddisfa[ci]bili con un contratto di durata indefinita». Ne deriverebbe – nonostante il caso di specie fosse “formalmente” soggetto alla regola della integrale acausalità (per il primo contratto ai sensi del decreto n. 34/2014; per le sue proroghe ed il contratto successivo ai sensi del decreto n. 81/2015) – l’illegittimità di ogni contratto a termine, a partire dal primo, per il quale non era stata offerta la prova, a carico del datore di lavoro, della sussistenza di «particolari e specifiche esigenze transitorie» [17]. Pertanto secondo il giudice di Firenze acausale significa causale. In forza di quanto osservato, la statuizione non può essere condivisa. Per pervenire alla conclusione la pronuncia dichiara di indagare il significato dell’espressione “forma comune di rapporto di lavoro” alla luce dei principi stabiliti dalla stessa direttiva, scrutinando in particolare le interpretazioni offerte in più occasioni dalla Corte di Giustizia. Tuttavia ogni riferimento alla giurisprudenza comunitaria incentrata sulla necessità di esigenze transitorie, in quanto ricavata dalla misura antielusiva delle “ragioni oggettive”, è irrilevante, perché il sistema normativo italiano oggetto del giudizio [18] non era più fondato su quella misura. Dunque è privo di senso, rispetto alla soluzione del problema pratico, ogni ragionamento di conformazione ad una misura comunitaria allo stato facoltativa e comunque diversa da quella che, in quel momento, risultava attuata nell’ordinamento interno. Da qui (nonostante un certo risalto mediatico) anche l’irrilevanza della conseguente distribuzione degli oneri probatori, che peraltro il Tribunale governa erroneamente perché, se esistesse una regola [continua ..]
Il fatto è che la sentenza “nasconde”, in mezzo a questa irrilevante giurisprudenza dell’Unione sulle ragioni oggettive, l’unico argomento ipoteticamente riconducibile al caso in esame, vale a dire la asserita necessità che anche l’alternativa misura della durata massima complessiva di contratti escluda l’utilizzo del lavoro a termine per esigenze stabili e permanenti. Tale sarebbe, ad avviso del Tribunale, l’argomento speso dal giudice di Lussemburgo nel caso Fiamingo, in specie ove si osserva che sarebbe «difficile per un datore di lavoro, che abbia esigenze permanenti e stabili, aggirare la tutela concessa dall’accordo quadro contro gli abusi facendo decorrere, alla fine di ciascun contratto di lavoro a tempo determinato, un termine di circa due mesi». Senonché in quella vicenda, relativa all’art. 326 del nostro codice della navigazione [19], la Corte di Giustizia si occupava soltanto del diverso problema della adeguatezza di un intervallo di non lavoro rispetto all’interruzione del vincolo di successione. Invero, la disciplina speciale in materia di navigazione si fonda su una specifica misura antielusiva, non integrativa di quella prevista dalla clausola 5, lett. b), dell’accordo europeo ma giudicata ad essa equivalente [20], consistente in un limite di durata massima annuale di (uno o) più ininterrotti rapporti a termine, oltre il quale opera la automatica trasformazione del rapporto in uno a tempo indeterminato (art. 326, commi 1 e 2, cod. nav.). Come esattamente rilevato in dottrina, anche questa misura è in sé acausale, prescindendo da qualsiasi “ragione oggettiva giustificatrice” [21]. Pertanto nulla esclude che pure in questo settore i contratti a tempo determinato possano essere utilizzati, nel ricordato limite di durata annuale, per soddisfare esigenze stabili e permanenti. Al solo scopo di evitare un fittizio frazionamento del calcolo della durata massima annuale, l’art. 326, comma 3, cod. nav. precisa, però, che l’intervallo di tempo tra due contratti a termine, quando non superiore a sessanta giorni, non esclude il requisito della ininterrotta prosecuzione della prestazione resa in favore dello stesso armatore, cioè il requisito utile per il calcolo della predetta durata massima. Questa è dunque la [continua ..]
Ovviamente, in relazione alla speciale disciplina della navigazione si può discutere sulla ragionevolezza dell’argomento speso dalla Corte di Giustizia, ad esempio rilevando che la sola ipotizzata “difficoltà” dell’armatore nell’interrompere per oltre sessanta giorni il nesso di successione tra due contratti potrebbe non essere sufficiente a garantire l’adeguatezza dello strumento prescelto rispetto all’obiettivo perseguito dalla direttiva [23]. Non a caso, la Cassazione ha in seguito affermato che la disciplina dell’art. 326, comma 3, cod. nav. non esclude che, in concreto, ricorra un esercizio della facoltà di assumere a tempo determinato in frode alla legge sanzionabile ex art. 1344 c.c. [24]. Tuttavia non è possibile fraintendere il senso dell’argomentazione coltivata dal giudice di Lussemburgo, e ancor meno estrapolare da una sua pronuncia un unico passaggio motivazionale per ricavarne qualcosa di completamente diverso e poi generalizzarlo, perfino rispetto al primo contratto, in relazione a settori invece interessati dall’applicazione della disciplina ordinaria interna. Ed invero, una cosa è l’effettività del limite della durata massima complessiva disgiunto da quello delle ragioni oggettive, altro è il problema posto dalla nozione di “contratti successivi”. Tra il limite di durata massima e il nesso di successione sussiste un collegamento, nella prospettiva antielusiva, soltanto se il secondo è idoneo ad interferire con l’effettività del primo [25], come appunto può verificarsi, in concreto, rispetto alla soluzione tecnica escogitata nella disciplina della navigazione. Ma la conclusione di certo non vale, almeno rispetto al fattore temporale [26], per la disciplina generale del lavoro a termine in cui, proprio al contrario, il lasso di tempo intercorso tra due rapporti è per definizione irrilevante ai fini del calcolo della durata complessiva delle successioni (art. 19, comma 2, d.lgs. n. 81/2015), mentre con gli intervalli minimi di non lavoro di dieci o venti giorni (art. 21, comma 2, d.lgs. cit.), di per sé inidonei a soddisfare l’obiettivo comunitario [27], si persegue lo scopo, originario e più circoscritto, di evitare (non il decorso della durata massima complessiva, bensì [continua ..]