Il contributo esamina la portata e gli effetti della sentenza costituzionale n. 194/2018.
The article analyses the effects and consequences of the constitutional sentence n. 194/2018.
Keywords: Dismissal – increasing protections – legal certainty.
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1. Premessa: lo scenario su cui indice la decisione della Corte - 2. La tutela contro i licenziamenti illegittimi nella legge n. 92/2012: cenni - 3. Un veloce focus sulle piccole imprese - 4. Il contratto a tutele crescenti: l’ambito di applicazione - 5. Segue: le ipotesi di tutela reinitegratoria - 6. Segue: la tutela indennitaria e l’intervento (marginale) del Decreto Dignità - 7. L’ordinanza di remissione del Tribunale di Roma del 26 luglio 2017: i profili di incostituzionalità - 8. Il dictum della Corte Costituzionale - 9. Conclusioni: l’assetto vigente e le questioni aperte - NOTE
Il d.lgs. 6 marzo 2015, n. 23, attuativo della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, ha rappresentato una svolta notevole nel diritto del lavoro, ponendosi, in evidente discontinuità rispetto alle precedenti politiche del lavoro. Il decreto delegato, infatti, si pone quale punto di arrivo di un disegno attuato nel corso del triennio 2012-2015, che ha stravolto il paradigma del diritto del lavoro: il legislatore ha posto in essere una progressiva demolizione di fatto della costruzione monolitica del lavoro subordinato come tipo contrattuale nel quale non sono ammesse diverse gradazioni di tutela in relazione alle effettive esigenze del contesto economico e produttivo [1] che era stata avallata dalla giurisprudenza per mezzo dell’utilizzo spesso discrezionale delle numerose clausole generali che hanno caratterizzato la tecnica legislativa ed aveva quantomeno contribuito all’utilizzo diffuso di rapporti precari (autonomi, di collaborazione coordinata e continuativa, subordinati) in ragione dei minori costi, e soprattutto della maggiore flessibilità in uscita di cui gli stessi sono dotati. Con il disegno riformato poc’anzi richiamato, dunque a partire dalla legge Fornero, si è tentato di restituire centralità al lavoro subordinato stabile per mezzo della accresciuta flessibilità gestionale del rapporto di lavoro ottenuta grazie alla revisione della disciplina delle mansioni e dei controlli a distanza, contenuta nel d.lgs. n. 81/2015 [2]; e, per quanto qui più rileva, di interventi di flessibilizzazione in uscita attraverso la parziale e “cervellotica” [3] revisione della tutela reale di cui all’art. 18, legge 20 maggio 1970, n. 300, “razionalizzata” e resa certa nelle regole e nei costi dal Jobs Act [4]. In questo quadro, la sentenza della Corte Costituzionale del 26 settembre scorso rappresenta un deciso arresto al disegno riformatore proposto nella scorsa legislatura: se è pur vero che la pronuncia in commento certamente non ha “smontato” il Jobs Act, permanendo acquisita al sistema la possibilità di una tutela anche solo indennitaria contro i licenziamenti illegittimi [5], essa riafferma la centralità della tutela del lavoro espressa dagli artt. 4 e 35 Cost. rispetto al bilanciamento con i valori sottesi all’art. 41 Cost. Di fatto, per questa [continua ..]
Se questo è lo scenario di fondo, prima di esaminare i contenuti e le conseguenze della pronuncia della Corte Costituzionale, appare utile tentare una ricostruzione, seppur sintetica, dei molteplici (qualcuno ha parlato di ben 12) regimi di tutela contro i licenziamenti illegittimi. La prima delle distinzioni, ovviamente, è quella tra lavoratori assunti prima o dopo il 7 marzo 2015, vale a dire tra quanti sono stati assunti con contratto a tutele crescenti e quanti, invece, hanno conservato la disciplina dettata dall’art. 18 Stat. lav., come modificato, peraltro, dalla legge Fornero. Per quest’ultima categoria di soggetti, la legge n. 92/2012, in quanto frutto di un “governo tecnico di larghe intese”, ha prodotto una riforma parziale quanto alla flessibilità in uscita, ulteriormente appesantita da mediazioni sulle formulazioni normative, funzionali a generare pluralità di letture [7]. Sinteticamente, la “nuova” formulazione dell’art. 18, legge n. 300/1970, a fronte del licenziamento illegittimo, continua a garantire la reintegra – seppur modulata in due distinte fattispecie [8] – in un numero prevalente di ipotesi, ivi comprese quelle dei licenziamenti collettivi intimati in violazione dei criteri di scelta stabiliti dalla legge o dagli accordi sindacali, garantendo, in buona sostanza, la conservazione dell’assetto normativo preesistente [9]. Viceversa, la tutela meramente risarcitoria è “confinata” alle sole ipotesi di licenziamenti per motivo oggettivo insussistente [10] e per violazioni solamente formali della disciplina limitativa dei recessi [11] e prevede che il giudice dichiari la risoluzione del rapporto, condannando il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva in misura compresa tra le 12 e le 24 mensilità (6-12 mensilità in caso di vizi meramente formali) dell’ultima retribuzione globale di fatto. La determinazione della misura esatta del risarcimento, dunque, è stata rimessa alla “discrezione” del giudice che la determina – con onere di motivazione specifica al riguardo – in relazione ad alcuni parametri indicati dal legislatore: l’anzianità (aziendale) del lavoratore, le potenzialità economiche del datore di lavoro (numero di [continua ..]
Per nulla inciso dalla riforma Fornero, invece, è stato l’apparato di tutela riconosciuto dall’art. 8, legge 15 luglio 1966, n. 604 ai dipendenti di datori di lavoro di piccole dimensioni (e di organizzazioni di tendenza). Tale disposizione appronta una tutela assai meno favorevole rispetto a quella contenuta nell’art. 18 della legge n. 300/1970: la sanzione è quella della condanna alternativa del datore di lavoro, a sua scelta [12], a «riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni» (con rapporto di lavoro nuovo), o a risarcire il danno nella misura di una indennità fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, incrementabile fino a 10 mensilità per lavoratori con anzianità di servizio superiore a 10 anni e fino a 14 mensilità per lavoratori con anzianità di servizio superiore a 20 anni. Anche in questo caso la concreta determinazione della misura del risarcimento è rimessa al giudice, al quale, anche in tale ipotesi, sono indicati i criteri per la graduazione (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa, anzianità di servizio del lavoratore, “comportamento” e delle “condizioni” delle parti). Fa peraltro eccezione l’ipotesi di nullità del recesso per illiceità del motivo o per altre ipotesi equiparate, per cui si applica la sanzione della “tutela reale piena” prevista dai commi 1-3 dell’art. 18, Stat. lav. È opportuno sottolineare che, con una giurisprudenza che sarà costantemente confermata (e finanche nella sentenza n. 194/2018), la Corte Costituzionale ha ritenuto la legittimità di tale sanzione solo risarcitoria sia in relazione all’art. 3 Cost. – affermando che la maggiore rilevanza dell’elemento fiduciario e della necessità di non gravare di oneri eccessivi le imprese minori giustificano il diverso trattamento riservato ai lavoratori in base agli artt. 8, legge n. 604/1966, e 18, legge n. 300/1970 [13] – che in riferimento all’assenza nel nostro ordinamento di un precetto costituzionale che imponga una tutela di tipo reintegratorio, ben potendo, il legislatore, «nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario» [14].
Quanto ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti [15], il Jobs Act, ha inteso – in ottemperanza al criterio direttivo contenuto alla lett. c) del comma 7, art. 1, legge n. 183/2014 (anch’esso sospettato, come si dirà, di incostituzionalità dal Tribunale di Roma, ma ritenuto legittimo dalla Consulta) – «rafforzare le opportunità di ingresso del mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di nuova occupazione» per mezzo della «previsione, per le nuove assunzioni del contratto a tempo determinato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». L’implementazione di tale principio, peraltro e come noto, non è avvenuta con una modifica degli elementi costitutivi del contratto di lavoro a tempo indeterminato, essendosi il legislatore limitato ad intervenire sul solo statuto protettivo operante in ipotesi di licenziamento illegittimo, definendo nella sostanza, più che nella forma, un modello di tutele crescenti, il quale supera (con rilevanti modifiche) non solo la disciplina oggetto dell’art. 18 della legge n. 300/1970, ma anche quella prevista, per le imprese di più ridotte dimensioni organizzative, dall’art. 8 della legge n. 604/1966. Nel fare ciò, il legislatore ha inteso, soprattutto, fornire certezze rispetto agli esiti della declaratoria di illegittimità del licenziamento, tanto con riferimento alle ipotesi in cui possa trovare applicazione la tutela reale (che assume carattere residuale e contorni molto più definiti), quanto relativamente alla misura della tutela indennitaria (che diveniva ulteriormente baricentrica), quantificata, appunto, “a tutela crescente”, e cioè in funzione della sola anzianità di servizio del lavoratore interessato, senza ulteriori margini di discrezionalità per il giudice. E proprio tale superamento della discrezionalità del giudice è stato il punto che ha determinato la rottura del modello legislativo rispetto a dato costituzionale. Andando con ordine, però, è opportuno rammentare che la nuova disciplina ha un campo di applicazione limitato ai soli nuovi assunti [16]. Tale differenziazione, come già rilevato dalle prime analisi [17] della disciplina non sembrava porre particolari profili di illegittimità costituzionale, stante quella consolidata [continua ..]
Coerentemente ai principi di delega, il d.lgs. n. 23/2015 limita la tutela reintegratoria “piena” alle ipotesi di licenziamenti discriminatori (identificati dall’art. 3 della legge n. 108/1990, che a sua volta rinvia all’art. 4 della legge n. 604/1966 ed all’art. 15 della legge n. 300/1970), nulli (limitatamente ai casi «espressamente previsti dalla legge»), inefficaci perché intimati in forma orale, nonché privi di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015). Nelle ipotesi testé individuate il regime protettivo è sostanzialmente conforme a quello previsto dai primi tre commi dell’attuale formulazione dell’art. 18 [19]. Ed infatti, in relazione alle fattispecie di illegittimità sopra richiamate il giudice «ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro» e lo condanna «al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l’inefficacia». La condanna ha quindi ad oggetto la liquidazione di un’indennità, non più commisurata alla retribuzione globale di fatto, ma, sempre in un’ottica di maggiore certezza, parametrata «all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto», «corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione» (e comunque non inferiore a cinque mensilità, cui si accompagna l’obbligo di versamento dei contributi previdenziali), dedotto l’aliude perceptum [20]. A tale forma di tutela piena, se ne affianca una “ridotta” riservata alle fattispecie di recesso illegittimamente motivato dalla disabilità fisica o psichica del lavoratore, nonché alle «ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento» (art. 3, comma 2). La prima delle due tipologie di illegittimità non pone particolari problemi, salva la verifica se la stessa colpisca anche i licenziamenti [continua ..]
Come anticipato, nel disegno declinato dal legislatore del Jobs Act non solo rispetto al licenziamento illegittimo la tutela indennitaria è largamente prevalente, ma essa è anche largamente prevedibile nella sua misura e proporzionata alla durata del rapporto di impiego del soggetto interessato dal recesso unilaterale. Sennonché, proprio questo secondo profilo è oggetto della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 194, finendo con il rendere assai poco coerente il nuovo assetto legislativo – in cui, come si dirà, la misura dell’indennità è rimessa alla discrezionalità del giudice – con gli intenti originari del legislatore. Sia quel che sia, le fattispecie cui si applica la tutela risarcitoria riguardano tanto recessi motivati da ragioni disciplinari in cui esista un fatto imputabile al lavoratore disciplinarmente rilevante, che quelli intimati per motivo c.d. economico (licenziamenti per motivo oggettivo e licenziamenti collettivi. In tali ipotesi, il rapporto viene dichiarato estinto alla data del licenziamento ed il datore di lavoro condannato al pagamento di una indennità (non assoggettata a contribuzione previdenziale) quantificata in misura pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, entro comunque un minimo e un massimo che, successivamente all’intervento operato dal c.d. Decreto Dignità (decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96 [26]), risultano pari, rispettivamente, a sei e 36 mensilità (con conseguente sterilizzazione ai fini indennitari degli anni di servizio superiore al diciottesimo). Come è evidente, dunque, l’intervento del Decreto Dignità è risultato alquanto limitato, lasciando inalterata la struttura e le modalità di funzionamento della norma, e limitandosi a innalzare il limite minimo e quello massimo all’interno dei quali può collocarsi la quantificazione dell’indennità da corrispondere al lavoratore [27]. Ciò ha consentito l’intervento della Corte Costituzionale, altrimenti inibito dallo ius superveniens [28], atteso che l’ordinanza di remissione del Tribunale di Roma ha denunciato l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 [continua ..]
Con la corposa ordinanza 26 luglio 2017 [31], il Tribunale di Roma ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 7, lett. c), legge n. 183/2014, e 2, 3 e 4, d.lgs. n. 23/2015, in relazione alla presunta violazione degli artt. 3, 4, 35, 76 e 117 Cost. Sebbene i molteplici profili di incompatibilità del contratto a tutele crescenti ipotizzati dal Tribunale di Roma siano stati grandemente sconfessati dalla successiva pronuncia della Consulta, appare comunque opportuno evidenziarne la portata, chiarendo sin d’ora che era in dubbio la possibilità per il legislatore di operare una marginalizzazione della tutela in forma specifica, atteso che la stessa non rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo dei principi di garanzia del diritto al lavoro previsto dagli art. 4 e 35 Cost.» [32]. Anzitutto, il giudice remittente ritiene la violazione del principio di uguaglianza in riferimento al differente (e meno favorevole) regime di tutela riservato ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti in ragione della sola data di assunzione. Secondo il Tribunale, infatti, «la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni altro profilo sostanziale», sicché la diversificazione risulterebbe irragionevole. Sennonché, lo stesso giudice entra in contraddizione rispetto a tale censura, ricordando che la giurisprudenza della Corte Costituzionale è costante nel ritenere che «il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche» [33], ma ritenendo tali assunti non applicabili al caso esaminato, atteso che nella situazione in esame ci si porrebbe in una prospettiva sincronica in cui coesistono due regimi di tutela divergenti [34]. Sotto altro profilo – che sarà poi quello effettivamente valorizzato dalla Corte Costituzionale – il Tribunale di Roma ha dubitato del rispetto del principio di uguaglianza sostanziale ex art. 3, comma 2, Cost., in quanto il meccanismo rigido e automatico di determinazione dell’indennità risarcitoria in ragione dell’unico criterio dell’anzianità di servizio, non consente alcuna valutazione da parte del [continua ..]
Ai dubbi di costituzionalità del Tribunale di Roma (e della dottrina) sinteticamente ricordati la Corte Costituzionale ha dato risposta lo scorso 9 novembre, quando ha finalmente depositato le attese motivazioni relative alle questioni sollevate con la descritta ordinanza del Tribunale di Roma. Prima di passare alla (sintetica) analisi della decisione e dei relativi effetti, pare opportuno premettere che la Corte ha delimitato fortemente l’ambito della declaratoria di illegittimità costituzionale; anzi, la parte destruens della ordinanza di remissione contenuta nella pronuncia della Corte appare argomentata molto più diffusamente e convincentemente rispetto alla parte della stessa in cui è accolta la questione di costituzionalità. Così, la Consulta ha ritenuto non fondata la questione di legittimità secondo la quale il d.lgs. n. 23/2015 avrebbe violato il principio di eguaglianza, perché la norma tutela i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 in modo deteriore rispetto a quelli impiegati, anche nella stessa azienda, prima di tale data [39]. La Corte pur premettendo che la tutela prevista dal Jobs Act sia in effetti deteriore rispetto a quella precedentemente in vigore, prende atto che la delimitazione della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo sono frutto di scelte di politica normativa che «non contrastano, di per sé, con il principio di eguaglianza, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008, sentenza n. 254 del 2014, punto 3. del Considerato in diritto)». Ciò in quanto il legislatore, fermo restando il rispetto del principio di ragionevolezza, ha una piena libertà nel delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme [40]. Sennonché, il richiamo al canone della ragionevolezza – che comunque deve ispirare il legislatore nella delimitazione dell’operatività temporale delle norme – impone una verifica in ordine allo scopo prefisso di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di nuova occupazione» (art. 1, comma 7, legge n. 183/2014); verifica [continua ..]
Insomma, la Consulta affida nuovamente al giudice il compito di “personalizzare” la misura dell’indennità risarcitoria fra il minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità. La decisione mette definitivamente la parola fine all’intenzione di parte della dottrina di costruire un modello che permettesse di fissare in maniera prestabilita e forfettizzato il cosiddetto costo di separazione (secondo il linguaggio economico anglosassone, il severance cost ofiring cost), fondata sulla (in verità difficilmente contestabile) convinzione che l’incertezza sarebbe un ostacolo alle assunzioni stabili da parte delle aziende. La decisione, pur essendo nel complesso bilanciata, soprattutto nella parte in cui la stessa ha salvaguardato l’impianto del Jobs Actquanto alla ulteriore limitazione della tutela reintegratoria manifesta non indifferenti criticità sotto il profilo applicativo e sistematico. A prescindere dalla già citata perdita dalla certezza correlata dal meccanismo di severance payment delineato dal legislatore del 2015 (che era tanto certo nel suo meccanismo di determinazione, da risultare, agli occhi della Corte, insostenibile sotto il profilo della ragionevolezza), è evidente, che sotto il profilo della tutela indennitaria, è venuto meno lo spirito delle “tutele crescenti” ed anzi, in termini quantitativi, a seguito delle modifiche introdotte dal decreto legge n. 87/2018, l’indennità prevista a favore di lavoratori impiegati in forza di contratti conclusi dopo il 7 marzo 2015, nella sua misura massima, è di ben 12 mesi superiore a quella prevista a favore dei soggetti a favore dei quali trova applicazione l’art. 18 della legge n. 300/1970, riproponendo – per via rovesciata – il tema della differenziazione di disciplina per casi tutto sommato omogenei tra loro, diversificati in ragione del solo “fluire del tempo”, criterio che, come già detto, necessità di essere verificato anche sul piano del principio della ragionevolezza. Orbene, se questa differenza potrebbe risultare (ex post) ragionevole come misura compensativa per la perdita della tutela reintegratoria con riferimento ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (che pare il nucleo essenziale della riforma oggetto del d.lgs. n 23/2015), non può non notarsi [continua ..]