Prendendo spunto dalla ricorrenza del centenario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il saggio si propone di esaminare le principali fonti internazionali sulla libertà sindacale, confrontandone i contenuti e le ricadute con alcuni recenti arresti giurisprudenziali interni.
Starting from the hundredth anniversary of the foundation of the International Labor Organization, the essay proposes to examine the main international sources on trade union freedom, comparing the contents and relapses with some recent national cases of law.
Keywords: Trade Union Freedom – ILO – European Convention on Human Rights – military.
Articoli Correlati: libertà sindacale - oil - cedu - militari
1. La libertà sindacale nelle fonti internazionali: la "base di partenza" comune - 2. La giurisprudenza del Committee on Freedom of Association in tema di libertà sindacale e non discriminazione - 2.1. Il reclamo FIOM-CGIL nella vicenda FIAT - 3. La libertà di associazione sindacale nella Carta di Nizza ... - 3.1. ... e nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ((e nella Carta sociale europea)) - 4. La libertà di associazione dei militari: dalle pronunce della Corte Edu alla sentenza n. 120/2018 della Corte Costituzionale - NOTE
La nozione di “libertà sindacale” inevitabilmente rinvia ai modelli di democrazia che si sono sviluppati nel corso del secolo appena concluso in Occidente e, in particolare, in Europa, dove il concetto trasmette in modo chiaro l’evoluzione delle società e dei sistemi giuridici propri dello Stato liberale ottocentesco a quelli delle moderne democrazie sociali garantite da costituzioni rigide [1]. Anzi, può ben dirsi che il riconoscimento del diritto alla libertà di associazione sindacale abbia rappresentato la base per una sostanziale e duratura pacificazione sociale tra classi «fino ad allora radicalmente contrapposte dall’ineguale distribuzione di potere e reddito conseguente alla diversa collocazione nella sfera della produzione» [2]. Di questa condizione ne sono apparse bene consapevoli le nazioni firmatarie del Trattato di Versailles, quando cento anni or sono, nel 1919, istituirono l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) [3], nella convinzione che la pace universale e duratura fosse possibile solo se fondata sulla giustizia sociale. In conseguenza di ciò, unanimemente, affermarono che l’economia mondiale avesse bisogno di regole chiare, al fine di assicurare che il progresso economico andasse di pari passo con la giustizia sociale, la prosperità e la pace di tutti. L’OIL si impegnò, quindi, fin dall’inizio del suo operare, nella definizione di un sistema di labour standards, convenzioni internazionali e raccomandazioni [4], redatte da rappresentanti dei governi dei singoli Stati membri, dei datori di lavoro e dei lavoratori: regole sociali elementari, la cui osservanza doveva essere garantita a prescindere dal livello di sviluppo di ciascuno Stato [5]. Tra questi, uno specifico rilievo assume l’enunciazione, sin nel preambolo della Costituzione dell’OIL [6], del principio di libertà sindacale quale mezzo necessario a migliorare le condizioni economiche e sociali dei lavoratori e a garantire la pace nel mondo. Tuttavia, la stessa Carta fondamentale restringe l’esercizio di tale libertà al perseguimento di “obiettivi legali”, ammettendo così la possibilità che uno Stato membro possa limitare per legge il suo esercizio. Ad ogni modo, il principio in parola è stato poi riaffermato enfaticamente nella c.d. [continua ..]
Proprio a tal proposito, per evitare che i diritti e le prerogative riconosciuti nelle summenzionate Convenzioni non rimangano mere enunciazioni di principio, a garanzia dell’effettività del diritto d’associazione, nel 1951, venne creato il Comitato sulla Libertà di Associazione (Committee on Freedom of Association, CFA [18]), un organismo indipendente interno al Consiglio di Amministrazione, con il compito di verificare l’attuazione delle Convenzioni sulla libertà sindacale sia dal punto di vista normativo che pratico, nonché di esaminare i reclami relativi alle violazioni della libertà sindacale ad opera degli Stati membri [19]. A tal fine, il CFA riceve reclami da parte delle organizzazioni dei datori di lavoro o dei lavoratori e li esamina senza che sia necessario il preventivo consenso del governo dello Stato interessato, con il quale, però, il Comitato si interfaccia al fine di stabilire con precisione gli elementi di fatto denunciati nel reclamo [20]. In proposito, peraltro, occorre rammentare che l’attività del CFA ha natura solo latamente giurisdizionale, ma essenzialmente politica e di moral suasion, atteso che nel caso in cui si rilevi violazioni dei principi relativi alla libertà sindacale, il “processo” si conclude con la promulgazione di una raccomandazione di adozione di misure volte a riparare alle violazioni riscontrate; gli Stati destinatari sono poi tenuti ad informare il Comitato sulle misure adottate in applicazione delle raccomandazioni medesime. In oltre sessant’anni di lavoro, il Comitato sulla libertà sindacale ha esaminato oltre 2.300 casi, sviluppando un importante corpo di principi in materia, che svolge un’importante funzione preventiva per gli Stati che possono riferirsi agli stessi per emendare o abrogare previsioni normative e rimediare de facto ad una situazione che è in contrasto con i principi della libertà sindacale [21]. Tra questi, una specifica rilevanza assumono le pronunce del CFA relative alle discriminazioni sindacali, che, a parere del Comitato, costituiscono una delle più gravi violazioni della libertà sindacale, potendo arrivare anche a minacciare l’esistenza stessa delle organizzazioni di tutela dei lavoratori [22]. Peraltro, in aderenza a un indirizzo comune a molte corti internazionali, il Comitato ha assunto una [continua ..]
Nonostante l’imponente corpus di principi in tema di non discriminazione elaborato dal CFA, appare, in questa sede, opportuno rammentare che anche di recente, il Comitato è stato chiamato a pronunciarsi su situazioni relative a presunte discriminazioni sindacali realizzatesi nei quali è bene presente una lunga tradizione di legislazione di tutela della libertà sindacale, come l’Italia. Ci si riferisce, nello specifico al reclamo depositato nel maggio del 2012 dalla FIOM-CGIL (caso n. 2953), relativo alla nota “vicenda FIAT” poi conclusasi con la pronuncia della Corte cost. n. 231/2013 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 19 Stat. lav. [24] in relazione alla quale il Comitato, nel Report n. 371 del marzo 2014, ha ritenuto la sussistenza di un comportamento discriminatorio posto in essere dall’azienda, ritenendo, altresì, che vi fossero alcune responsabilità in capo al Governo italiano. In particolare, il CFA ha fortemente stigmatizzato il comportamento della FIAT, rilevando che «the present case contains a large number of disputes concerning allegations of anti-union discrimination of which the FIOM-CGIL and its members are claimed to be victims» e che esistono «a series of judicial decisions by various courts recognizing the existence, in some of these disputes, of anti-union practices in the Group under consideration» [25]. Sicché, e sebbene non tutte le decisioni della magistratura nazionale fossere giunte a compimento, il CFA si è sentito in dovere di ricordare che «anti-union discrimination constitutes one of the most serious violations of the freedom of association, since it may compromise the very existence of trade unions», raccomandando al Governo «not only to keep it informed of the outstanding judicial decisions but also to take the necessary initiatives, such as facilitating dialogue between the Group and the complainant organization, to help prevent any new conflicts of a similar nature from arising within the Group under consideration. The Committee requests the Government to keep it informed of this matter» (par. 625). E [continua ..]
Anche il diritto comunitario si è occupato espressamente del principio di libertà sindacale. Invero, un primissimo riconoscimento di tale diritto è rinvenibile nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori adottata a Strasburgo il 9 dicembre 1989 (artt. 11-14) [27]. Tuttavia, è solo con la successiva Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [28], entrata in vigore il 1° gennaio 2009, che il diritto alla libertà di associazione sindacale è stato effettivamente enunciato. Più precisamente, sul modello di quanto già avvenuto nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, l’art. 12 della Carta proclama il diritto alla «libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico, sindacale e civico, il che implica il diritto di ogni individuo di fondare sindacati insieme con altri e di aderirvi per la difesa dei propri interessi» [29]. Si tratta, invero, di un diritto che, nella sistematica della Carta, e differentemente da quanto avviene nella Costituzione italiana [30], non ha acquisito una propria specifica autonomia, ma che è ricompreso nel più generale diritto di associazione [31], denotando un indirizzo che valorizza la dimensione individuale, più che collettiva, del principio di libertà sindacale (non a caso collocata in una Carta che si occupa di diritti personali) [32]. La dimensione della libertà sindacale, dunque, è politica e vale a proteggere il cittadino, rectius, la persona nel suo rapporto con lo Stato, dichiarando il suo diritto ad associazioni sindacali non vincolate né condizionate dagli appartati pubblici [33]. Così operando, tuttavia, la «garanzia della libertà ... rinvia ad una generica libertà associativa al cospetto dei poteri pubblici e privati; i suoi contenuti positivi restano quindi affidati agli ordinamenti nazionali, ove si definiscono gli interventi promozionali» [34]. La laconica formulazione della disposizione eurocomunitaria – ripresa quasi pedissequamente da quella contenuta all’art. 11 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (v. infra) – risulta un ostacolo alla nascita di un comune denominatore costituzionale tra gli Stati comunitari non solo per quanto riguarda i profili [continua ..]
Se, dunque, l’enunciazione del diritto di associazione sindacale nella Carta dei diritti fondamentali assume una rilevanza pressoché solo formale – essendone esclusa a priori l’invocabilità per “incompetenza” eurocomunitaria sulla materia – ben altra portata giuridica ha avuto la analoga affermazione di libertà associativa contenuta nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa il 4 novembre 1950 [39]: anzitutto, poiché la stessa Carta dei diritti vi fa rinvio al fine di identificare il livello di protezione da garantire ai diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario, nonché di precisare che i diritti essenziali ivi riconosciuti fanno parte del diritto dell’Unione (v. supra). In secondo luogo, poi, la valenza giuridica della Convenzione si coglie nella lettura evolutiva che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha fatto del principio in parola, desumendone la rilevanza del diritto allo sciopero e alla contrattazione collettiva. Andando però con ordine, occorre constatare che la Convenzione è fondamentalmente rivolta alla protezione dei diritti civili e politici, restando esclusi i diritti di natura economica e sociale [40], tra cui, tradizionalmente, sono ricompresi le prerogative sindacali. Tuttavia, essa, all’art. 11, riconosce il diritto di «ogni persona ... alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi». Analoga previsione è contenuta anche dall’altro fondamentale Trattato del Consiglio d’Europa, la Carta sociale europea, adottata nel 1961 e rivista nel 1996 e nel 1999, che all’art. 5, impegna i membri del Consiglio a «garantire o promuovere la libertà dei lavoratori e dei datori di lavoro di costituire organizzazioni locali, nazionali o internazionali per la protezione dei loro interessi economici e sociali ed aderire a queste organizzazioni». L’inclusione della libertà di associazione sindacale nella più generale libertà di associazione fa sì che, in merito, valgano le considerazioni già espresse in relazione alla (pedissequa) [continua ..]
In applicazione del principio di libertà di associazione sindacale enunciato dall’art. 11 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (e dell’art. 5 della Carta sociale europea), di recente, anche nel nostro Paese è venuto meno il divieto – di “atavica” memoria – che vietava ai militari la facoltà creare associazioni dirette alla tutela collettiva dei propri interessi professionali. Il divieto era espressamente contemplato dall’art. 1475 del Codice dell’ordinamento militare (d.lgs. n. 66/2010), per il quale «i militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali». Si tratta di una previsione che era stata giustificata in ragione della ritenuta prevalenza degli interessi alla difesa della nazione, all’ordine pubblico, all’efficienza del sistema militare, rispetto ad alcune garanzie individuali, come la libertà di associazione sindacale riconosciuta a tutti gli altri cittadini [49]. Tuttavia, in dottrina era diffuso il dubbio circa la legittimità di tale esclusione che operava in senso assoluto, frustrando in modo irreparabile ogni esigenza di rappresentanza dei soggetti in parola [50]. Alcune delle giustificazioni anzidette, invero, erano già poste in dubbio dalla avvenuta smilitarizzazione della Polizia di Stato (legge n. 121/1981), alla quale, dopo ampio dibattito [51], era conseguito il riconoscimento di una libertà sindacale, per così dire, “separata”, per mezzo di associazioni sindacali ad hoc, scollegate da quelle degli altri lavoratori (art. 12, legge n. 121/1981) [52]. E tuttavia, la Corte Costituzionale aveva posto fine a qualunque dubbio di ragionevolezza circa il permanente divieto ritenendo che «in questa materia [sindacale] non si deve considerare soltanto il rapporto di impiego del militare con la sua amministrazione e, quindi, l’insieme dei diritti e dei doveri che lo contraddistinguono e delle garanzie (anche di ordine giurisdizionale) apprestate dall’ordinamento», ma soprattutto il «carattere assorbente del servizio, reso in un ambito speciale come quello militare» che rende l’ingresso di organizzazioni altre (sindacali) «non compatibile con i caratteri di coesione interna e neutralità [continua ..]